Taylor Swift lancia il suo nuovo album “Midnights” e 10 di quei brani finiscono dritti nelle prime 10 posizioni della classifica americana Billboard Hot 100 dei singoli più venduti e streammati sulle varie piattaforme, e il brano “Anti-Hero” raggiunge i 17 milioni di streaming su Spotify in un solo giorno.

Sembra a un primo sguardo una grande conquista, sia dal punto di vista artistico sia considerando il contesto socio-culturale attuale, in cui le donne continuano a essere meno rappresentate degli uomini all’interno dell’industria musicale: pensare che un’artista possa raggiungere un traguardo da record come questo dovrebbe rendermi solo contenta, in quanto donna. Le cose però non sono così semplici, soprattutto se si approfondiscono alcune dinamiche che regolano il mercato discografico e ne orientano l’andamento.

Taylor Swift rappresenta, considerando la parabola della sua carriera musicale, lunghissima (17 anni: più di metà della sua vita), solidissima e al momento tutt’altro che discendente (è una delle più premiate della storia della musica con più di 950 premi vinti su oltre 1550 nomination), un esempio (in parte) positivo a livello di rappresentazione e modello per qualsiasi artista: è una cantautrice, lontana quindi dallo stereotipo che vede le donne come tradizionalmente incasellate nell’eterno ruolo di interpreti – tipicamente di brani scritti da uomini, tra l’altro; è una donna dichiaratamente pro-choice, apertamente alleata della comunità LGBTQIA+ (nel 2019 ha lanciato una petizione a supporto del’Equality Act), schierata politicamente (una rarità se si considera il mondo da cui proviene, quello della musica country, tipicamente di altro orientamento ideologico – si veda il precedente creato dalle Dixie Chicks e il conseguente boicottaggio da parte dei fan dopo la loro condanna a Bush nei primi anni 2000).

Considerando però alcuni elementi del momento storico particolare che stiamo vivendo, soprattutto di profondi cambiamenti a livello socio-culturale e di nuove e vecchie dinamiche dell’industria musicale (soprattutto di questa “rinata” industry post-covid, sempre meno accogliente nei confronti degli e delle emergenti) è impossibile non vedere alcune zone d’ombra anche in quella che sembrerebbe una buona notizia tout court. 

Può la vittoria di una donna essere la vittoria di tutte le donne?

Per cominciare da uno degli aspetti più evidenti, il trionfo di una sola artista nella top ten di Billboard sembra ricordare più la dinamica di funzionamento di un monopolio che quella di un mercato libero.
Una domanda sorge spontanea: dove sono le artiste emergenti? Perché una singola artista si è presa tutta la fetta della torta?

Quando ci si pone il problema della rappresentanza di genere – ovvero, quante donne fanno musica? Quante raggiungono il successo? Quante godono di libertà artistica? – non si può non pensare alla questione della rappresentanza come vera e propria rappresentazione. La rappresentazione implica necessariamente che oltre a esserci “delle donne” in classifica, ci siano varietà e pluralità di voci e di narrazioni. La mancanza di pluralità e varietà, così come accade quando mancano a livello di rappresentazione di donne (vs uomini), è sempre indice e manifestazione di uno squilibrio di potere, che in questo caso è trasversale alla questione di genere (lo stesso problema si era presentato quando il monopolio della top ten di Billboard aveva riguardato Drake, per fare un esempio a noi vicino temporalmente).

In questo caso l’artista rappresentata e premiata non è un’artista qualunque: è un’artista che vince un Grammy dietro l’altro, secondo il report IFPI 2022 è l’artista numero 2 al mondo, seconda solo ai BTS, è un’artista che non proviene dal mondo indipendente, è una donna che ha un net worth stimato da Forbes pari a 570 milioni di dollari, il che la rende una delle artiste più ricche e potenti del pianeta.

Taylor Swift, molto più di altre sue colleghe, pur mantenendo quanto più possibile il controllo sulle proprie scelte artistiche (significativo il caso della sua faida con Scooter Braun e la Big Machine Records, che per anni le hanno impedito di acquisire la proprietà dei master dei suoi primi sei album, faida conclusasi con l’artista stessa che ha ri-registrato alcuni tra i suoi primi lavori ri-pubblicandoli da sé), è un prodotto.

Se è vero che può essere difficile distinguere una donna di successo (lo stesso Forbes la definisce “self-made”, donna-imprenditrice-fattasi-da-sé) da un prodotto, qui ci troviamo in un caso borderline in cui il prodotto in questione ha chiaramente una testa pensante e una propria agency, ma altro non fa che ricalcare il modello di una donna che è sì artista, ma anche appunto imprenditrice (con una major e un team dedicato alle spalle, tutt’altro che self-made come viene raccontato), in piena logica neo-liberista. Donna-imprenditrice, donna-boss-bitch, donna-che-fattura, donna-prodotto: in fondo tra i quattro elementi non c’è molta differenza. La stessa Taylor Swift incarna contemporaneamente il ruolo di artefice, complice e vittima delle dinamiche di un’industria che nonostante sia “creativa” o “culturale”, si occupa principalmente di trarre profitto dalla vendita dei propri prodotti, tanto che Swift stessa ammette candidamente nel proprio documentario “Miss Americana”, prodotto per Netflix, di doversi continuamente reinventare artisticamente per rimanere rilevante nel mercato musicale, che di certo non premia le donne, soprattutto una volta che superano una certa età (ma questa è un’altra storia ancora).

Il motivo per cui 10 tra i 13 brani del nuovo album di Taylor Swift occupano le prime dieci posizioni della classifica Billboard, è che questi stessi brani sono stati resi vendibili, marketable, appetibili per il target di riferimento grazie a un’operazione strategica di altissima precisione chirurgica.

Per prima cosa, Taylor Swift può contare sull’appoggio di una fanbase molto solida e affezionata, che è affiliabile per composizione demografica e per dinamica dell’emergere del fenomeno culturale allo stesso pubblico di artisti e artiste del mondo di High School Musical e Disney (nonostante Swift sia nata nell’89 e come artista abbia più volte cercato di prendere le distanze sia dal mondo country, sia dalle forme espressive meno mature del pop radiofonico – si vedano i precedenti due album, Folklore e Evermore, composti e prodotti insieme a Matt Berninger e Aaron Dessner dei The National e con i featuring di Bon Iver). I suoi fan, e anzi le sue fan, perché il suo pubblico è principalmente femminile, sono il pubblico che per età e abitudine consuma più musica, quello che acquista più dischi, quello che più di tutti, oltre a garantire un buon numero di stream il giorno stesso dell’uscita del disco, compra anche i biglietti dei concerti.

Sappiamo che il mercato discografico è globalmente in crescita, ma chi ci guadagna? Sappiamo anche che le polemiche contro le politiche di retribuzione degli artisti da parte delle piattaforme di streaming sono un terreno di battaglia a cui si cerca di trovare soluzioni da anni, tra una toppa messa da piattaforme terze con download a pagamento e tentativi di teorizzare modelli che possano rendere l’industria più equa per tutti.

Ma ancora oggi, mentre artisti e artiste indipendenti cercano disperatamente di convincere la propria audience ad attivare il pre-save del loro prossimo singolo in uscita, sperando di raggiungere un numero di stream adeguato a fare sì che un distributore o una major investa su di loro, mentre la produzione di vinili rallenta (per tutti ma non proprio tutti a quanto pare, visti gli ordini del vinile di “Midnights” in formati personalizzati per colore e cover) bloccando così un intero settore di vendita in crescita da anni, fondamentale per gli indipendenti, e mentre interi tour vengono cancellati per salvaguardare la salute mentale degli artisti e delle artiste stesse, mettendo ancora una volta in estrema difficoltà un ramo dell’industria musicale già provato dalla pandemia, l’impero di Taylor Swift sa già che ancora una volta conquisterà il mondo, grazie a un uso sapiente delle proprie armi.

Quali? Un’artista intelligente e capace, apparentemente “vicina” ai fan e apparentemente sensibile e consapevole; una produzione musicale all’altezza delle aspettative; un sound (dopo la parentesi folk-pop-indie Swift è tornata all’electro-pop di “1989”, il disco che l’aveva definitivamente liberata dal marchio di starlette del country, consacrandola come popstar) in linea con quanto viene richiesto dalle radio; una label (Universal) che investe grandi fette di budget per marketing, pr e promozione; i legami preferenziali con le piattaforme di streaming; una presenza massiccia in algoritmi di vario tipo che contribuiscono a orientare i comportamenti dei consumatori. Parlo in questo caso non solo, com’è facilmente immaginabile, degli algoritmi che regolano l’inserimento in playlist, ma anche di quelli che agiscono sui social: per fare un esempio concreto, ho scritto un tweet su Swift e ora sono settimane che la mia timeline è invasa da tweet suggeriti che la menzionano. È impossibile riuscire a rimanere all’esterno di questa “bolla” che si è creata con l’uscita del disco, e ahimè non si tratta del buon vecchio passaparola, ma di altri tipi di comunicazione, molto più invasivi e invadenti.

Un altro elemento salta inevitabilmente all’occhio, se torniamo al discorso della rappresentanza di genere come rappresentazione di varietà e pluralità: la mancanza di rappresentazione di genere non ci può impedire di considerare altre problematiche e altri squilibri nell’industria musicale trasversali al genere stesso, come lo squilibrio di potere di cui sopra (semplificabile con qualche forzatura nella dicotomia major vs indipendente, affermato vs emergente, pop vs alternativo), ma anche la mancanza di rappresentazione di donne e in generale persone non-bianche all’interno dell’industria musicale.

Chiaramente il predominio di Taylor Swift non risolve questo problema e anzi risulta essere la manifestazione di una chiara difficoltà della music industry a premiare e riconoscere il talento indipendentemente da fattori quali il genere o l’etnia.

Per questo, piuttosto che rallegrarmi perché una donna già potente e con molti mezzi che finiscono per renderne quasi scontato il successo batte l’ennesimo record, preferisco gioire per altre notizie, che mi rendono più fiduciosa nei confronti della possibilità di un cambiamento strutturale di alcune dinamiche del settore: pensiamo per esempio al trionfo di Arlo Parks ai Mercury Prize nel 2021, o al recente exploit agli stessi award di Little Simz, da artista indipendente dura e pura ai riconoscimenti del mondo mainstream senza alcun compromesso.

In conclusione: la vittoria di una donna non è necessariamente la vittoria di tutte. Rallegriamoci per questo piccolo-grande riconoscimento di un talento e di una voce già pienamente riconosciuti e celebrati, ma non dimentichiamoci di quanta strada ancora bisogna fare perché la rappresentanza di genere diventi un’effettiva rappresentazione dell’eterogeneità della musica scritta, composta e interpretata da donne, bianche e non-bianche, pop e non pop, mainstream o indipendenti.

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