Nella prima parte dell’articolo vi abbiamo lasciato con la domanda delle domande: 

perchè? Perché in 40 anni di concerti, a San Siro ci hanno suonato solo due artiste italiane, Laura Pausini (2007) e Alessandra Amoroso (2022)? 

Quando si parla di artiste sui palchi o in classifica (o meglio della loro assenza) si leggono o si sentono spessissimo frasi come “alle donne non interessa la musica” o “le donne fanno musica per donne” o ancora “le donne fanno musica oggettivamente più brutta di quella degli uomini”, tutto per giustificare lo stato di fatto che conosciamo.

Su questi temi le opinioni si sprecano, e non c’è niente di più pericoloso che costruire un’idea basandosi sul proprio sentiment, magari un sentiment maschile singolare che, nonostante le credenze, è quanto di più distante ci possa essere da una visione super partes (anzi, senza consapevolezza rappresenta uno degli sguardi più parziali esistenti su questi temi).

É facilissimo ritenere spontanea la propria percezione su un qualsiasi argomento e pensare che corrisponda a tutto quello che c’è da sapere sul tema stesso, modellando e plasmando tutti gli elementi attorno a quell’unica sensazione, cioè selezionando tanto accuratamente quanto (a volte) inconsciamente solo le evidenze che ben si sposano con la nostra idea iniziale, quindi ignorando tutte le altre. 

In altre parole tendiamo ad adattare i risultati alla tesi che ci sembra più “sensata” (leggi più “vicina a noi”), che ci dia una sensazione di sicurezza, che ci faccia credere di non essere completamente disarmati rispetto ad un dato argomento che non conosciamo. 

Ecco, questo è talvolta accompagnato dal cosiddetto effetto Dunning-Kruger, che porta al contrario esatto di uno dei fondamenti del progresso umano e tecnologico, ovvero il metodo scientifico.

Se decidiamo di affidarci solo alle nostre “sensazioni”, contribuiremo a creare una cosa ben precisa: alimentare il  pregiudizio (o bias), che può essere veramente molto radicato all’interno del processo che adottiamo per formarci un’opinione.

Quindi, frasi come “alle donne non interessa la musica”, “le donne fanno musica per donne” o ancora “le donne fanno musica più brutta di quella degli uomini” sono il frutto di vari stereotipi legati alle donne la cui figura galleggia in un mare di pregiudizi che perpetuiamo e rafforziamo ogni giorno da secoli, a volte a nostra insaputa. 

E dico “nostra” anche se a scrivere è una donna, perché tutti e tutte nasciamo immersi in questa cultura, zuppi di un fluido patriarcale che ci avvolge da dentro e da fuori e che spesso, se non ci siamo mai interrogati su chi siamo veramente, è l’unica realtà che conosciamo (il film Matrix ci da una bella immagine a riguardo). 

È il nostro sistema operativo di base, e per riuscire a fare qualcosa di diverso non basta installare nuove app, sostituire la batteria e piallare la ram, bisogna proprio disinstallare tutto e programmare un software ad hoc, fatto apposta per noi, che risponda esattamente alle nostre caratteristiche e che, tanto per rendere le cose ancora un pochino più difficili, si aggiorni in base ai nostri inevitabili cambiamenti.

Questa cosa si può fare solo in un modo, ovvero basando il nuovo impianto sulla consapevolezza di noi stesse/i, chiedendoci chi siamo, facendoci delle domande e dandoci delle risposte vere, superando anche i pregiudizi verso di noi, appellandoci alla nostra più stoica onestà intellettuale.

Continuando con la metafora tecnologica, programmare un software ad hoc su di noi è certamente più dispendioso sia in termini di tempo che di risorse impiegate, ma il risultato non avrà paragone in termini di soddisfazione ed usabilità rispetto ad una soluzione standard e preconfezionata che ci riempie di limiti operativi e ci impedisce anche solo di immaginarli, i cambiamenti.

Se vediamo tutto come un caso singolo che “è successo alla mia amica x ma a me MAI”, sussurrando frasi come “è sempre stato così” o “è nella natura delle cose”, basandoci solo sulle nostre esperienze dirette da interazione sociale che, per le persone più fortunate, prevedono scambi relazionali di discreta intensità con un massimo di 10-12 individui in tutto, stiamo percorrendo a grandi falcate la strada verso il pregiudizio più cieco (e bieco).

Per evitare questo, una cosa ci viene in aiuto: i dati.

Dobbiamo trovarli, analizzarli, e se non li abbiamo già a disposizione dobbiamo ricercarli per riuscire a capire, ad esempio, come mai si parla tanto di sessismo, stereotipi di genere e femminismo, mentre noi questo problema magari neanche lo percepiamo.

Articolo scritto da Francesca Barone

[continua nella parte 3]

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