Nella seconda parte dell’articolo, dicevamo che per evitare di guardare il mondo attraverso le spessissime lenti del pregiudizio, una cosa ci può venire in aiuto: i dati.

E allora vediamoli, questi dati.

La premessa delle premesse è che il liquido viscoso in cui nasciamo ha un nome e si chiama sistema patriarcale o patriarcato.

Il patriarcato è una cosa talmente complessa, talmente intrinseca nella nostra società, talmente sfaccettata e articolata che si manifesta in mille e ancora mille modi che non staremo qui a raccontare. Basti pensare che è alla base della nostra cultura tutta, del colore dei vestiti che compriamo, di come camminiamo, del taglio di capelli che abbiamo, del ruolo che ci diamo nella società, del posto che ci diamo nel mondo, di cosa pensiamo guardandoci allo specchio.

Ci sono tantissimi ottimi libri disponibili frutto di ricerche di pensatrici e pensatori, cercateli, li troverete.

Dati, dicevamo. Un aspetto importante da ricordare è che un dato non può essere interpretato singolarmente e neanche in modo univoco. I dati vanno incrociati.

Mi spiego. Partiamo da due semplici spunti già citati nella prima parte di quest’analisi:

  • le autrici iscritte ad una qualsiasi delle società di collecting (es. SIAE) in Europa sono il 16% del totale (fonte Keychange).
  • nelle classifiche FIMI degli album più venduti del 2018, 2019, 2020 e 2021 le artiste rappresentano rispettivamente il 14%, 14% 11% e 11% all’interno delle prime 100 posizioni

Ad una prima occhiata superficiale questi due dati potrebbero spingerci a pensare “ecco! allora lo vedi che avevo ragione? Alle donne la musica non interessa, non la sanno fare e comunque è a me che non piace la loro musica quindi problema risolto”.

Sull’ultimo punto non discuto (non è vero, diciamo non lo farò qui) ma sui primi due c’è molto da dire, guardando appunto i dati.

Per capire davvero le radici di un problema bisogna voltarsi indietro, perché la società in cui viviamo oggi è il frutto delle decisioni prese dalle società del passato.

Parliamo dell’Italia.

  • Dato 1

Fino a 47 anni fa, ovvero fino al 1975 quando è stato riformato il diritto di famiglia, alle donne veniva ancora chiesta l’ “autorizzazione maritale” per donare, alienare beni immobili, sottoporli a ipoteca, contrarre mutui, cedere o riscuotere capitali. Quindi è solo dal 1975 che le donne possono di fatto disporre in autonomia dei propri beni. In caso di morte del marito, le mogli avevano solo il diritto di usufrutto su tutti i beni che venivano invece ereditati dai figli.

  • Analisi Dato 1 

Qui intravediamo il tipo di tessuto culturale in cui una donna era costretta a vivere: se le donne non potevano disporre dei propri beni, possiamo immaginare quanto fosse difficile decidere di intraprendere una carriera artistica in autonomia, sia a livello pratico ed economico, sia a livello di accettazione sociale di questa scelta che, anche nei pochissimi casi in cui poteva venir esplicitata senza timore di ripercussioni immediate, veniva chiaramente ed apertamente ostacolata. Succede ora, figuriamoci prima.

Non avere un’occupazione retribuita vuol dire non avere denaro proprio di cui poter disporre senza rendere conto a nessuno. 

Questo dato, il 51% circa, è riferito al 2022. Le classifiche FIMI che abbiamo citato sopra si riferiscono agli ultimi 4 anni; pensiamo quindi a quale fosse la situazione di libertà di scelta, disponibilità economica e accettazione sociale per una donna che sentisse la spinta ad intraprendere una carriera artistica anche solo 70 anni fa, nei primi anni ‘50 del 900.

Ora teniamo in testa questa sensazione e pensiamo a come fosse nei primi anni 50’ dell’ 800, o del 700.

Ora pensiamo al gender gap (ovvero al fatto che ci sono molto meno donne rispetto agli uomini in tutti gli ambiti lavorativi) e al gender pay gap (le donne che ci sono guadagnano meno dei colleghi uomini a parità di ruolo e prestazione).

Ecco.

E cos’è l’arte se non la libera espressione della visione del mondo di un essere umano? Cos’è l’arte se non l’espressione di un desiderio? E come si fa a desiderare? Soprattutto, come si fa a desiderare una cosa così lontana da quello che ci si aspetta dal genere a cui apparteniamo?

È l’atto di desiderare che porta al cambiamento, e per desiderare non basta la singola volontà, altrimenti non si spiegherebbe come mai, nel 2022, ci siano tutte queste persone nel mondo che vanno dallo scontento, all’insoddisfatto, all’indigente, al furioso, al depresso, allo stato di assoluta miseria.

Se bastasse la volontà non si spiegherebbe come mai tu (si proprio tu) continui a fare un lavoro che non ti piace, precario, sottopagato.

Se bastasse la volontà non si spiegherebbe come mai tu (sì proprio tu) sei single quando non lo vorresti essere, o come mai rimani da anni in una relazione disfunzionale e tossica che ti ha tolto ogni volontà (appunto) anche solo di pensare di meritarti qualcosa di meglio.

La tua volontà non basta. La mia volontà non basta.

Mi fermo qui, perchè anche se i dati proposti sono pochi e poco approfonditi, danno uno spunto per capire che la frase iniziale “alle donne non interessa la musica” non può essere liquidata come vera così com’è.

Quanto ti può “interessare” una cosa che il mondo in cui vivi ti comunica molto chiaramente che non riguarda affatto te? 

Quanto devi essere “motivata” per decidere di stravolgere la tua esistenza combattendo tutte le regole della società in cui vivi (e quindi probabilmente anche della tua famiglia, che ti mantiene) per dire “voglio fare la musicista!”?

Quanto devi essere coraggiosa (o sconsiderata?) per decidere di fare una scelta simile pensando di avere le stesse possibilità di successo di un uomo? Una donna musicista?!

Ecco, appunto.

E non dimentichiamoci della sindrome di Ginger Rogers, cioè di quella consapevolezza che per raggiungere gli stessi risultati di un uomo una donna debba fare le stesse cose, “ma all’indietro e sui tacchi a spillo”.

Articolo scritto da Francesca Barone

[continua nella parte 4]

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