L’industria musicale, e non solo, non ha mai fatto sconti alle sue artiste. Come ci può essere QUALCUNO sorpreso dalla morte di Sinéad O’Connor? Chi si è curato abbastanza di loro per salvare Judy Garland, Whitney Houston, Amy Winehouse, Marilyn Monroe, Billie Holiday? Dove vai, quando la morte appare come la via d’uscita più facile? Questa follia della musica valeva la vita di Sinéad? No, non la valeva. Lei era una sfida, non poteva essere inscatolata, e ha avuto il coraggio di parlare quando tutti gli altri stavano in silenzio per non avere problemi. Tormentata per il solo fatto di essere stata se stessa.” Prima di Morrissey, a ricordarci dell’ignobile falla nel sistema, c’è Jude Ellison S. Doyle, che alla questione dedica un intero libro: Trainwreck (Spezzate – Tlon). Tradotto alla lettera, Trainwreck riporta a un disastro ferroviario, un cortocircuito, un fenomeno squisitamente femminile su cui media e industria si accaniscono da sempre. I primi per andare incontro a una grossa fetta di voyeur, la seconda per scaricare in fretta l’artista che non si adegua allo standard.

The Lion and the Cobra è uno degli album di debutto più elettrizzanti della storia del pop. Ma già dalla copertina si è costretti a una mediazione. Sinéad, con la testa rasata per protestare contro un’immagine della donna ipersessualizzata, ritratta in primo piano mentre grida, è troppo aggressiva. Per il mercato americano e canadese meglio un artwork più conciliante, capo chino e sguardo a terra: da un atteggiamento di sfida si è passati a uno di resa.

Tutto accade molto in fretta nella vita di questa giovane donna, la sua carriera esplode nel secondo album I Do Not Want I Haven’t Got del 1990 contenente Nothing Compares 2 U, brano scritto da Prince e passato alla storia nell’interpretazione di Sinéad. Grazie anche all’ipnotico videoclip, la canzone diventa da subito il testamento di un’artista ricordata soprattutto per questo successo e per un gesto che non ha nulla a che fare con la sua musica.

Il 3 ottobre del 1992, ospite al Saturday Night Live per la promozione del suo ultimo disco, Sinéad sceglie di cantare un brano che non è contenuto nell’album: si tratta di War di Bob Marley, una forma di protesta contro la pedofilia nella chiesa cattolica. Durante l’esibizione prende una foto di papa Giovanni Paolo II e la strappa in favore di camera. Da questo momento in poi la sua vita non sarà più la stessa.

Ann Powers, già alla fine degli anni Novanta, sollevava una domanda: se fosse stato Iggy Pop a strappare la foto del papa, le reazioni sarebbero state le stesse? Sinéad è trasgressiva, ma non nel modo in cui piace lo siano le ragazze. Il fatto che sia un imbarazzo nella scena mentre altre artiste, altrettanto spericolate, vengano lodate per l’audacia, rivela il codice segreto cui le donne devono ancora sottostare: puoi peccare, ma è meglio si tratti di peccati di lussuria”.

Tutti amano la voce di Sinéad, molti apprezzano il suo look androgino, pochi sposano il suo credo, nel tempo sempre più radicalizzato. Un vagabondaggio spirituale che è un po’ l’afflizione e il dono che ha ispirato molti artisti irlandesi, nel suo caso mai appagato. Lo racconta bene Glen Hansard in uno di suoi ultimi post: L’Irlanda ha sempre preferito i suoi eroi sul muro. Troppa paura di affrontarli nella stanza. Ora possiamo facilmente appendere la sua fotografia alla parete e venerarla per la gigante che era. Sinéad ha sempre gettato la testa oltre il parapetto. Adesso riposa giù, alle radici di ciò che ci rende migliori.”

In occasione dell’ultima vigilia di Natale, Sinéad O’Connor si è unita a un gruppo di musicisti in Grafton Street a Dublino per l’annuale supporto ai senzatetto della città. A invitarla lo stesso Hansard, che già in passato aveva tentato di mettersi in contatto con lei. Non sappiamo in quanti ci abbiano provato davvero, sappiamo però che non sono mancati attestati di stima, incoraggiamento e supporto da altre artiste non allineate al sistema: Cat Power, Amanda Palmer, Fiona Apple.

Quando Morrissey snocciola i nomi delle artiste messe al bando dall’industria ne cita solo alcuni, l’elenco è infinitamente più lungo: Connie Converse, Janis Joplin, Judee Sill, non sono riuscite a sopravvivere a lungo; chi ce l’ha fatta – Karen Dalton, Betty Davis, Sibylle Baier, Vashti Bunyan, Linda Perhacs – è stata costretta a cambiare rotta. Se per gli uomini nomadismo significa libertà, per le donne è condanna alla solitudine. Le nobody’s girls, le ragazze di nessuno, senza radici, senza legami, sfuggono alle convenzioni, ma anche al dolore e soprattutto a se stesse. Una vita di stanze d’albergo, camerini, aeroporti, autostrade, voli intercontinentali, palchi in città di passaggio, serate che spesso si risolvono in mezzi fallimenti, per colpa di problemi tecnici, dell’alcol o della tristezza“. Ce lo ricorda la giornalista Paola De Angelis quale è stato il prezzo che molte musiciste hanno pagato per essersi sottratte alla vita domestica negli anni Cinquanta e Sessanta e oggi, siamo così sicure di esserci allontanate da questo stereotipo? Siamo così certe che l’industria sia pronta a supportare le artiste che confessano fragilità, irrequietezza o disturbi mentali?

In ogni campo e in ogni epoca la strada è stata e continua a essere accidentata per ragazze che non si riconoscono in certi schemi, divise tra scelte di vita affatto scontate, percorsi sghembi e ingegno. Ma arrivate fino a qui è bene tenere a mente le parole della scrittrice britannica Helen Lewis Le donne educate non fanno la storia. Le donne difficili sì”.

Laura Gramuglia

photo credit ©Muchacha Fanzine

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