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Taylor Hawkins Tribute Concert

“Quando siamo apparsi sul palco per il nostro ultimo concerto, gli unici protagonisti sembravano i maschi. Da fuori sembravano più o meno uguali a com’erano stati negli ultimi trent’anni. Dentro era tutt’altra storia.” fonte: account instagram Foo Fighters Inizia così il memoir di Kim Gordon, resoconto lucido e amareggiato di quasi trent’anni di matrimonio e vita on the road accanto alla stessa persona. Per tutto il tempo in cui ha militato nei Sonic Youth, Gordon ha dovuto puntare i piedi per legittimare il suo ruolo. Non solo la ragazza carina che suona il basso al centro del palco, ma un membro a tutti gli effetti di una band che ha cambiato la storia della musica indipendente e non solo. Per tutto il tempo in cui ha militato nei Sonic Youth, Gordon si è sentita parte di una squadra, di una famiglia; curiosità e ingerenze figlie di un pregiudizio che arrivava dall’esterno. Quando è uscita dalla bolla, si è accorta che niente è scoppiato, il club aveva perso solo uno dei suoi soci e nemmeno così necessario a giudicare dalle pacche sulle spalle scambiate tra quei maschi da sempre poco avvezzi a manifestazioni pubbliche di affetto o sintonia. La storia dei Sonic Youth tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio dei Novanta si avviluppa a quella dei Nirvana, entrambe le formazioni sono solite puntare un faro l’una nella direzione dell’altra quando ne hanno occasione. Kim Gordon è una delle artiste chiamate da Dave Grohl e Krist Novoselic alla cerimonia introduttiva della band di Seattle alla Rock and Roll of Fame e Kurt Cobain ha sempre ribadito il suo tenace rifiuto al machismo imperante del rock attraverso i media e indossando abiti femminili sul palco. Deve essere per questo che il Taylor Hawkins Tribute Concert mi ha fatto pensare a quanto, ancora oggi, il rock’n’roll in particolare sia un club prevalentemente maschile. Le donne ci sono, ci sono state anche in passato, ma ancora una volta il pensiero è andato a quanto sia difficile per loro. A Wembley è andato in scena uno spettacolo artisticamente impeccabile, musicisti straordinari e umanità da vendere. Da qualche tempo non si vedevano così tanti artisti riuniti su uno stesso palco, tutti concordi nel celebrare la bellezza, il talento e la bontà di Hawkins. Per circa sei ore sul palco la storia del rock è protagonista, con un chiaro rimando al live di trent’anni prima, quando il requiem toccò a Freddie Mercury e infatti sul palco ci sono Brian May e Roger Taylor che implicitamente ricordano anche chi partecipò allora – David Bowie e George Michael – e non avrebbe potuto farlo oggi. La storia del rock si racconta attraverso i Queen, Paul McCartney, James Gang, AC/DC, Metallica, Rush, Police, le formazioni preferite di Hawkins che, prima di entrare nei Foo Fighters, accompagnò in tour Alanis Morissette. (Quest’ultima in presenza al tributo di Los Angeles alla fine del mese.) Non sono stupita dal fatto che gli idoli di Hawkins fossero prevalentemente maschi, so quanto sia stato difficile per una ragazza intercettare quel tipo di cameratismo, ma non posso fare a meno di dedicare una riflessione alle donne presenti sul palco: la sedicenne Violet, figlia di Grohl, la dodicenne prodigio della batteria Nandi Bushell, Chrissie Hynde e Kesha. Con la speranza che le nuove generazioni riescano eccome a integrarsi nell’industria musicale armate del proprio carisma e talento, penso a Chrissie e alla sua biografia in cui palesa quanto, soprattutto all’inizio, la sua unica possibilità fosse quella di comportarsi come un ragazzo (Hynde da giovane è stata vittima di un episodio di violenza e se ne è assunta la colpa) e penso a Kesha, la cui carriera è stata segnata dall’accusa di abusi rivolte al suo produttore. Il sentimento che legava i musicisti l’altra sera a Wembley era vivo, commovente. Una complicità che soprattutto in una fase più matura della vita è forse naturale ricercare tra chi è più simile a noi. Intesa che spesso gli uomini, musicisti e non, trovano con altri uomini e donne con altre donne. Se è davvero così, non vedo l’ora di poter vivere e raccontare una storia della musica – scritta, suonata, arrangiata, in studio e dal vivo – in cui a stimolare la discussione sia soltanto la qualità o l’intensità della performance. autrice: Laura Gramuglia  Laura GramugliaLaura Gramuglia è speaker, dj, autrice, storyteller e operatrice culturale. È stata tra i conduttori di Weejay a Radio Deejay. Ha scritto di musica e donne su «Rolling Stone», «Tu Style», «Futura», «Vinile» e ha collaborato al lancio della piattaforma di podcasting «Spreaker». Per Arcana Edizioni ha pubblicato “Rock in Love – 69 storie d’amore a tempo di musica”, tradotto in Turchia, “Pop Style – La musica addosso” e “Hot Stuff – Cattive abitudini e passioni proibite. L’erotismo nella musica pop”. Per Fabbri Editori “Rocket Girls – Storie di ragazze che hanno alzato la voce”, tradotto in Brasile e oggi apprezzato podcast e laboratorio didattico nelle scuole. Su Radio Capital è autrice e conduttrice dei format Rock in Love, Capital Hot, Capital Supervision e Rocket Girls. Su Rai Italia ha raccontato “Amori lontani” nei programmi Community e L’Italia con Voi. Su RSI musica e moda nelle trasmissioni Tutorial e Filo Diretto. Sul palco ha affiancato e raccontato Cristina Donà, Erica Mou, Rossana Casale, Nada, Beatrice Antolini. Gira l’Italia con il format Rocket Girls Live e il dj set Rocket Girls On Vinyl. Attivista del collettivo Equaly per combattere la disparità di genere nell’industria musicale.

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LA VOLONTÀ NON BASTA (riflessioni dal concerto di Alessandra Amoroso a San Siro) – PARTE 4

La terza parte di quest’analisi si concludeva con un’affermazione: La tua volontà non basta, La mia volontà non basta. Il motivo per cui non ci sono tante donne in classifica o sui palchi, non è il risultato della mancanza di volontà delle artiste del nostro tempo, non è il risultato della mancanza di volontà di musiciste in erba che pensano “naaaaa, non mi va proprio. Suonare la mia musica davanti a duemila persone che sono venute apposta a sentirla? Non mi interessa affatto, rimango comunque una donna!”. Scherzi a parte, pensate che si possa decidere di intraprendere una carriera artistica senza basi economiche? No non si può, non si può nel 2022 come non si poteva ai tempi di Mozart in cui il mecenatismo ha di fatto permesso lo sviluppo di carriere artistiche e la creazione di opere musicali che sono alla base della nostra cultura moderna, nonché il sostentamento economico dei suoi autori. Un altro tema importantissimo è il tempo. É importante ricordare che per fare musica e per costruirci sopra una carriera c’è bisogno di tempo; c’è bisogno di tempo per immaginare, creare, lavorare ad un pezzo magari per una settimana intera senza interruzioni. C’è bisogno di fondi, perché il lavoro creativo necessità di tempo per essere portato a termine, tempo che non ti viene retribuito nell’immediato (non è un segreto che molti artisti famosi abbiano potuto godere delle risorse di famiglia messe a loro disposizione). C’è bisogno di tempo per poter sbagliare, perchè “Isn’t She Lovely” e “Superstition” non sono venute fuori dal genio di Stevie Wonder buona la prima, come si dice; molto probabilmente per una “Sir Duke” ci sono altri 40 brani “sbagliati” (qualsiasi cosa voglia dire) o mai pubblicati, o mai diventati famosi. Ci vuole tempo (retribuito) per poter lavorare al proprio stile, per poterlo affinare, cambiare, per evolversi come artista e performer, per poter acquisire consapevolezza e fiducia nelle proprie capacità, per poter raccogliere quel che si è seminato, anche banalmente per poter inseguire locali e festival per elemosinare una data. Bisogna avere la libertà di non dover pensare ad altro, di non dover pensare a come ci si debba vestire, la libertà di non doversi preoccupare di avere delle perdite di sangue se fai un concerto e sei al secondo giorno di mestruazioni, a se si è belle/grasse/magre/brutte/alte/basse oppure no, a cosa si dice, a cosa penseranno gli altri di te, a se quella volta sei stata troppo disponibile, se hai riso troppo, se risulti “arrogante” se dici di essere una cantautrice, se è meglio coinvolgere qualche collega maschio per avere più credibilità etc. Insomma, bisogna avere un tipo di libertà speciale, una libertà fisica e mentale, la libertà che in questa società puoi conoscere solo se sei un uomo. E poi c’è l’ultimo tema: le donne sono percepite come un genere, anche musicale, gli uomini sono l’umanità. Frasi come “le donne fanno musica per donne” o ancora “le donne fanno musica oggettivamente più brutta di quella degli uomini” sono figlie dei peggiori e più radicati pregiudizi sullo sguardo femminile sul mondo. Quel pregiudizio che “tanto le donne parlano di cose da donne alle donne”, mentre gli uomini (non si sa perchè) non sono un genere, loro stessi non si percepiscono come un genere, non hanno uno sguardo parziale ma universale, gli uomini sono l’umanità stessa. Come puntualizzava la filosofa Simone De Beauvoir nel suo testo fondamentale “Il Secondo Sesso”, lo sguardo maschile sul mondo, che sia uno sguardo politico, letterario o musicale, è sempre stato considerato uno sguardo universale, che ha la pretesa di parlare di tutti e per tutti (anche qui il maschile sovraesteso non è usato a caso). C’è una logica alla base di questa evidentissima discriminazione in termini? No, non c’è, e parlo di logica, non di motivazioni. Mentre gli uomini hanno potuto fare della musica la loro professione fin dall’alba dei tempi, alle donne questa cosa è stata sempre sostanzialmente vietata. Ci sono poche donne in classifica dite voi? Sì, ci sono poche donne in classifica. Come accennato, a questo si aggiunge la serie i-n-e-n-a-r-r-a-b-i-l-e di pregiudizi rivolta proprio alle donne che vogliono fare della musica la propria professione. Se per secoli non era concepibile che una donna facesse la musicista, figuriamoci la compositrice, non possiamo stupirci che oggi, passati pochi decenni da “quei” secoli, la società e la nostra cultura ostacoli e sminuisca le donne che fanno musica e la musica che fanno. A questo, per farla breve, si aggiungono i pregiudizi e gli stereotipi di cui sopra, del tipo: alle donne non interessa esporsi  alle donne non interessa il successo le donne hanno voci fastidiose  le donne non sono portate per le materie intellettuali; fino a pochissimo (pochissimo) tempo fa le donne erano a tutti gli effetti considerati semplicemente esseri inferiori con precisissime funzioni di procreazione: mogli e madri (non dimenticherò mai i contenuti del vademecum “La sposa cristiana”, un libretto che il parroco del paese aveva consegnato a mia nonna materna poco dopo le nozze; quei diktat non lasciavano spazio all’immaginazione, disegnavano minuziosamente le mura perimetrali di quel carcere chiamato “genere femminile” che le donne dovevano impersonificare senza se e senza ma) le donne non sono portate per le materie scientifiche o per i computer (leggi alla voce: le donne producer sono pochissime) le donne devono essere belle (leggi alla voce se già fai fatica e sei pure “brutta” abbandona l’idea in principio che è meglio) Ecco un altro fatto interessante che fa capire bene il peso dei pregiudizi nella costruzione della società: prima dell’invenzione delle cosiddette “audizioni cieche”, ovvero l’introduzione di un paravento che celasse le sembianze (e quindi anche il sesso, l’etnia, l’eventuale disabilità, la bellezza, la bruttezza etc.) della persona che ambiva ad un posto di musicista in un’orchestra alla giuria esaminatrice, le donne in orchestra erano praticamente pari a zero. Siamo nel 1970 circa. Dopo l’introduzione di questo metodo cos’è successo? Riferendoci solo alla New York Philarmonic Orchestra, la percentuale di donne in organico è passata dallo 0% al

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DATI vs BIAS (riflessioni dal concerto di Alessandra Amoroso a San Siro) – PARTE 3

Nella seconda parte dell’articolo, dicevamo che per evitare di guardare il mondo attraverso le spessissime lenti del pregiudizio, una cosa ci può venire in aiuto: i dati. E allora vediamoli, questi dati. La premessa delle premesse è che il liquido viscoso in cui nasciamo ha un nome e si chiama sistema patriarcale o patriarcato. Il patriarcato è una cosa talmente complessa, talmente intrinseca nella nostra società, talmente sfaccettata e articolata che si manifesta in mille e ancora mille modi che non staremo qui a raccontare. Basti pensare che è alla base della nostra cultura tutta, del colore dei vestiti che compriamo, di come camminiamo, del taglio di capelli che abbiamo, del ruolo che ci diamo nella società, del posto che ci diamo nel mondo, di cosa pensiamo guardandoci allo specchio. Ci sono tantissimi ottimi libri disponibili frutto di ricerche di pensatrici e pensatori, cercateli, li troverete. Dati, dicevamo. Un aspetto importante da ricordare è che un dato non può essere interpretato singolarmente e neanche in modo univoco. I dati vanno incrociati. Mi spiego. Partiamo da due semplici spunti già citati nella prima parte di quest’analisi: le autrici iscritte ad una qualsiasi delle società di collecting (es. SIAE) in Europa sono il 16% del totale (fonte Keychange). nelle classifiche FIMI degli album più venduti del 2018, 2019, 2020 e 2021 le artiste rappresentano rispettivamente il 14%, 14% 11% e 11% all’interno delle prime 100 posizioni Ad una prima occhiata superficiale questi due dati potrebbero spingerci a pensare “ecco! allora lo vedi che avevo ragione? Alle donne la musica non interessa, non la sanno fare e comunque è a me che non piace la loro musica quindi problema risolto”. Sull’ultimo punto non discuto (non è vero, diciamo non lo farò qui) ma sui primi due c’è molto da dire, guardando appunto i dati. Per capire davvero le radici di un problema bisogna voltarsi indietro, perché la società in cui viviamo oggi è il frutto delle decisioni prese dalle società del passato. Parliamo dell’Italia. Dato 1 Fino a 47 anni fa, ovvero fino al 1975 quando è stato riformato il diritto di famiglia, alle donne veniva ancora chiesta l’ “autorizzazione maritale” per donare, alienare beni immobili, sottoporli a ipoteca, contrarre mutui, cedere o riscuotere capitali. Quindi è solo dal 1975 che le donne possono di fatto disporre in autonomia dei propri beni. In caso di morte del marito, le mogli avevano solo il diritto di usufrutto su tutti i beni che venivano invece ereditati dai figli. Analisi Dato 1  Qui intravediamo il tipo di tessuto culturale in cui una donna era costretta a vivere: se le donne non potevano disporre dei propri beni, possiamo immaginare quanto fosse difficile decidere di intraprendere una carriera artistica in autonomia, sia a livello pratico ed economico, sia a livello di accettazione sociale di questa scelta che, anche nei pochissimi casi in cui poteva venir esplicitata senza timore di ripercussioni immediate, veniva chiaramente ed apertamente ostacolata. Succede ora, figuriamoci prima. Dato 2: il tasso di occupazione femminile in Italia a inizio 2022 è intorno al 51% Analisi Dato 2: circa una donna su due in Italia non ha un’occupazione retribuita (la definisco così perché come sappiamo il lavoro domestico e di cura della famiglia è sì un lavoro, ma non viene retribuito).  Non avere un’occupazione retribuita vuol dire non avere denaro proprio di cui poter disporre senza rendere conto a nessuno.  Questo dato, il 51% circa, è riferito al 2022. Le classifiche FIMI che abbiamo citato sopra si riferiscono agli ultimi 4 anni; pensiamo quindi a quale fosse la situazione di libertà di scelta, disponibilità economica e accettazione sociale per una donna che sentisse la spinta ad intraprendere una carriera artistica anche solo 70 anni fa, nei primi anni ‘50 del 900. Ora teniamo in testa questa sensazione e pensiamo a come fosse nei primi anni 50’ dell’ 800, o del 700. Ora pensiamo al gender gap (ovvero al fatto che ci sono molto meno donne rispetto agli uomini in tutti gli ambiti lavorativi) e al gender pay gap (le donne che ci sono guadagnano meno dei colleghi uomini a parità di ruolo e prestazione). Ecco. Dato 3: il 31,5% delle 16-70enni (6 milioni 788 mila) ha subìto nel corso della propria vita una qualche forma di violenza fisica o sessuale, la maggior parte da partner o ex partner Analisi Dato 3: il dato si commenta da solo anche se solo non è, le sue compagne di viaggio sono Miss violenza economica e Madame violenza psicologica. Insomma, ostacoli, ostacoli e ancora ostacoli alla libera espressione, fisici, emotivi, mentali.  E cos’è l’arte se non la libera espressione della visione del mondo di un essere umano? Cos’è l’arte se non l’espressione di un desiderio? E come si fa a desiderare? Soprattutto, come si fa a desiderare una cosa così lontana da quello che ci si aspetta dal genere a cui apparteniamo? È l’atto di desiderare che porta al cambiamento, e per desiderare non basta la singola volontà, altrimenti non si spiegherebbe come mai, nel 2022, ci siano tutte queste persone nel mondo che vanno dallo scontento, all’insoddisfatto, all’indigente, al furioso, al depresso, allo stato di assoluta miseria. Se bastasse la volontà non si spiegherebbe come mai tu (si proprio tu) continui a fare un lavoro che non ti piace, precario, sottopagato. Se bastasse la volontà non si spiegherebbe come mai tu (sì proprio tu) sei single quando non lo vorresti essere, o come mai rimani da anni in una relazione disfunzionale e tossica che ti ha tolto ogni volontà (appunto) anche solo di pensare di meritarti qualcosa di meglio. La tua volontà non basta. La mia volontà non basta. Mi fermo qui, perchè anche se i dati proposti sono pochi e poco approfonditi, danno uno spunto per capire che la frase iniziale “alle donne non interessa la musica” non può essere liquidata come vera così com’è. Quanto ti può “interessare” una cosa che il mondo in cui vivi ti comunica molto chiaramente che non riguarda affatto te?  Quanto devi

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OPINIONI & BIAS (riflessioni dal concerto di Alessandra Amoroso a San Siro) – PARTE 2

Nella prima parte dell’articolo vi abbiamo lasciato con la domanda delle domande:  perchè? Perché in 40 anni di concerti, a San Siro ci hanno suonato solo due artiste italiane, Laura Pausini (2007) e Alessandra Amoroso (2022)?  Quando si parla di artiste sui palchi o in classifica (o meglio della loro assenza) si leggono o si sentono spessissimo frasi come “alle donne non interessa la musica” o “le donne fanno musica per donne” o ancora “le donne fanno musica oggettivamente più brutta di quella degli uomini”, tutto per giustificare lo stato di fatto che conosciamo. Su questi temi le opinioni si sprecano, e non c’è niente di più pericoloso che costruire un’idea basandosi sul proprio sentiment, magari un sentiment maschile singolare che, nonostante le credenze, è quanto di più distante ci possa essere da una visione super partes (anzi, senza consapevolezza rappresenta uno degli sguardi più parziali esistenti su questi temi). É facilissimo ritenere spontanea la propria percezione su un qualsiasi argomento e pensare che corrisponda a tutto quello che c’è da sapere sul tema stesso, modellando e plasmando tutti gli elementi attorno a quell’unica sensazione, cioè selezionando tanto accuratamente quanto (a volte) inconsciamente solo le evidenze che ben si sposano con la nostra idea iniziale, quindi ignorando tutte le altre.  In altre parole tendiamo ad adattare i risultati alla tesi che ci sembra più “sensata” (leggi più “vicina a noi”), che ci dia una sensazione di sicurezza, che ci faccia credere di non essere completamente disarmati rispetto ad un dato argomento che non conosciamo.  Ecco, questo è talvolta accompagnato dal cosiddetto effetto Dunning-Kruger, che porta al contrario esatto di uno dei fondamenti del progresso umano e tecnologico, ovvero il metodo scientifico. Se decidiamo di affidarci solo alle nostre “sensazioni”, contribuiremo a creare una cosa ben precisa: alimentare il  pregiudizio (o bias), che può essere veramente molto radicato all’interno del processo che adottiamo per formarci un’opinione. Quindi, frasi come “alle donne non interessa la musica”, “le donne fanno musica per donne” o ancora “le donne fanno musica più brutta di quella degli uomini” sono il frutto di vari stereotipi legati alle donne la cui figura galleggia in un mare di pregiudizi che perpetuiamo e rafforziamo ogni giorno da secoli, a volte a nostra insaputa.  E dico “nostra” anche se a scrivere è una donna, perché tutti e tutte nasciamo immersi in questa cultura, zuppi di un fluido patriarcale che ci avvolge da dentro e da fuori e che spesso, se non ci siamo mai interrogati su chi siamo veramente, è l’unica realtà che conosciamo (il film Matrix ci da una bella immagine a riguardo).  È il nostro sistema operativo di base, e per riuscire a fare qualcosa di diverso non basta installare nuove app, sostituire la batteria e piallare la ram, bisogna proprio disinstallare tutto e programmare un software ad hoc, fatto apposta per noi, che risponda esattamente alle nostre caratteristiche e che, tanto per rendere le cose ancora un pochino più difficili, si aggiorni in base ai nostri inevitabili cambiamenti. Questa cosa si può fare solo in un modo, ovvero basando il nuovo impianto sulla consapevolezza di noi stesse/i, chiedendoci chi siamo, facendoci delle domande e dandoci delle risposte vere, superando anche i pregiudizi verso di noi, appellandoci alla nostra più stoica onestà intellettuale. Continuando con la metafora tecnologica, programmare un software ad hoc su di noi è certamente più dispendioso sia in termini di tempo che di risorse impiegate, ma il risultato non avrà paragone in termini di soddisfazione ed usabilità rispetto ad una soluzione standard e preconfezionata che ci riempie di limiti operativi e ci impedisce anche solo di immaginarli, i cambiamenti. Se vediamo tutto come un caso singolo che “è successo alla mia amica x ma a me MAI”, sussurrando frasi come “è sempre stato così” o “è nella natura delle cose”, basandoci solo sulle nostre esperienze dirette da interazione sociale che, per le persone più fortunate, prevedono scambi relazionali di discreta intensità con un massimo di 10-12 individui in tutto, stiamo percorrendo a grandi falcate la strada verso il pregiudizio più cieco (e bieco). Per evitare questo, una cosa ci viene in aiuto: i dati. Dobbiamo trovarli, analizzarli, e se non li abbiamo già a disposizione dobbiamo ricercarli per riuscire a capire, ad esempio, come mai si parla tanto di sessismo, stereotipi di genere e femminismo, mentre noi questo problema magari neanche lo percepiamo. Articolo scritto da Francesca Barone [continua nella parte 3] Francesca BaroneFrancesca Barone è un’esperta di diritti musicali, di sincronizzazioni e di music business in generale. Professionista dell’industria musicale e della gestione di diritti in ottica business, è attualmente Music Supervisor indipendente per sincronizzazioni di ogni tipo (pubblicitarie, cinematografiche, televisive etc). Precedentemente Content Rights Manager, attuale consulente musicale per Dolce&Gabbana, con più di 16 anni di esperienza nel music business italiano, ha lavorato come Licensing Manager per Universal Music Publishing, come Sync Manager di Extreme Music e A&R per Sony Music Publishing, e come Consulente Musicale per Emi Music Publishing per i cataloghi di production music. È Consulente, docente per diversi corsi in scuole di formazione, scuole di musica e università italiane. Attivista femminista, è co-fondatrice di Equaly.it, la prima realtà ad occuparsi di parità di genere all’interno dell’industria musicale italiana. Con il nome di Franca Barone, ha pubblicato due album in qualità di cantautrice, compositrice e produttrice.

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Sono stata a San Siro al concerto di Alessandra Amoroso, la 2° donna nella storia della musica italiana a calcare questo palco – PARTE 1

Sono stata a San Siro al concerto di Alessandra Amoroso, la 2° donna nella storia della musica italiana a calcare questo palco – PARTE 1 – Avevo preparato questo articolo il giorno prima del concerto, anche se non si trattava di una recensione volevo aspettare di completarlo dopo aver assistito all’esibizione di un’artista che non avevo mai ascoltato dal vivo.  Dopo aver visto Alessandra Amoroso in azione a San Siro non posso che iniziare questo pezzo sottolineando quanto sia stato tutto meraviglioso: una pop-star vera, uno spettacolo degno di questo nome durato più di due ore in uno stadio in visibilio gremito delle persone più diverse che cantavano all’unisono, come la vecchia guardia di un coro intonatissimo, tutti i brani di una delle migliori interpreti italiane dei nostri tempi. Punto. E a me piace il jazz, per intenderci. Concerto n.200 per Amoroso, dopo 14 anni di successi continui, 7 album in studio, 2 dal vivo, 49 dischi di platino, 8 dischi d’oro e oltre 2 milioni e 700 mila copie vendute.  Una carriera invidiabile insomma, la carriera della seconda donna nella storia della musica italiana a calcare lo storico palco di San Siro. Ma andiamo con ordine. Siamo nel 1980, è il 27 giugno e Bob Marley è il primo protagonista del palco del “Giuseppe Meazza’’, lo stadio di Milano. Il suo è il primo concerto in assoluto che si tiene a San Siro. Da quel giorno sono passati più di 42 anni e 130 concerti (circa), da Bruce Springsteen a Edoardo Bennato (il primo artista italiano), dai Duran Duran agli One Direction, con Vasco, Ligabue e Springsteen nella top 3 della classifica virtuale del più alto numero di presenze all’interno di una sola venue. E qui cominciamo a fare una delle cose che ci piace tanto fare per tentare di avere uno sguardo il più possibile “oggettivo” su un dato argomento, ovvero contare (per citare Myss Keta, ma anche Michela Murgia). Quei circa 130 concerti sono stati interpretati da 51 artisti in totale tra cantanti e band, di cui 30 italiani e 21 stranieri. Il maschile sovraesteso della parola “artisti” in questo caso non è usato accidentalmente, perché di questi 51 artisti le donne con uno show a proprio nome sono 5:  – Laura Pausini (2007, la prima donna in assoluto, 2016, 2019 con Biagio Antonacci) – Madonna (2009 e 2012) – Rihanna (2016) – Beyoncé (2016 e 2018 con Jay-z)  – Alessandra Amoroso (2022) Nonostante i dati discordanti, facendo un rapido calcolo la percentuale delle artiste che hanno suonato a San Siro sembra essere intorno al 9% circa. Il 9%. Un numero che fa impressione ma che non si discosta dagli altri numeri che danno una fotografia del peso (piuma) delle donne all’interno del mercato musicale italiano di cui riportiamo due dati principali: 16%, la percentuale delle autrici iscritte ad una qualsiasi delle società di collecting (es. SIAE) in Europa (fonte Keychange) nelle classifiche FIMI (Federazione Industria Musicale Italiana) degli album più venduti del 2018, 2019, 2020 e 2021 le artiste rappresentano rispettivamente il 14%, 14% 11% e 11% all’interno delle prime 100 posizioni Questi dati fanno aprire più di una riflessione. Come detto, Laura Pausini è stata la prima donna in assoluto a suonare a San Siro nel 2007, quindi dopo 27 anni dal quel 27 giugno del 1980. In occasione del suo primo San Siro, Pausini aveva dichiarato: “Io sono orgogliosa di rappresentare tutte le colleghe italiane che verranno su questo palcoscenico, perché questa sera io sono la prima ma non sarò l’ultima […]” È vero, non è stata l’ultima ma ci sarebbero voluti altri 15 anni per vedere un’altra artista italiana esibirsi sullo stesso palco, ovvero Alessandra Amoroso. So bene cosa state pensando: evidentemente non ci sono state altre donne con un seguito tale da poter riempire uno stadio come San Siro.  Non so dire se questa frase sia vera così com’è oppure no, quello che so è che è importante capire il perché di questa situazione, perché al di là di San Siro le donne arrivano a suonare su troppi pochi palchi, seguito o non seguito. Sembra che non abbiano mai i “numeri” giusti. Scorrendo la lista di nomi che hanno avuto la possibilità di fare un concerto al Meazza dal 1980 ad oggi, saltano subito in mente delle assenti eccellenti, penso a:  A) Loredana Bertè, Donatella Rettore, Anna Oxa, Mia Martini, Raffaella Carrà, Gianna Nannini, Giorgia, Ivana Spagna, Irene Grandi, Carmen Consoli, Fiorella Mannoia, Elisa, Emma. Tutte artiste diverse, con generi, proposte artistiche, personalità ed età molto differenti, accomunate principalmente dal fatto di essere donne.  Credo possiamo essere d’accordo sul fatto che siano grandi nomi della musica italiana. Ora pensiamo a questi altri nomi:  B) Modà, Negramaro, Cesare Cremonini, Ultimo, Davide Van De Sfroos, Fedez, Marco Mengoni, Salmo.  Anche questi sono senz’altro grandi personaggi. Tralasciando il dettaglio che alcune delle artiste del gruppo A), se si prendono in considerazione i dati di vendita del decennio 2010-2019 hanno performance migliori rispetto ad alcuni artisti del gruppo B), rimane il fatto che nessun’artista del gruppo A) ha mai suonato a San Siro. Gli artisti del gruppo B) ci hanno suonato tutti. La stranezza di questo confronto porta a farsi la fatidica domanda: perché? [to be continued…] autrice: Francesca Barone Francesca BaroneFrancesca Barone è un’esperta di diritti musicali, di sincronizzazioni e di music business in generale. Professionista dell’industria musicale e della gestione di diritti in ottica business, è attualmente Music Supervisor indipendente per sincronizzazioni di ogni tipo (pubblicitarie, cinematografiche, televisive etc). Precedentemente Content Rights Manager, attuale consulente musicale per Dolce&Gabbana, con più di 16 anni di esperienza nel music business italiano, ha lavorato come Licensing Manager per Universal Music Publishing, come Sync Manager di Extreme Music e A&R per Sony Music Publishing, e come Consulente Musicale per Emi Music Publishing per i cataloghi di production music. È Consulente, docente per diversi corsi in scuole di formazione, scuole di musica e università italiane. Attivista femminista, è co-fondatrice di Equaly.it, la prima realtà ad occuparsi di parità di

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Sanremo e le donne, una questione di qualità.

di Chiara Longo
Sanremo 2022. Quest’anno, le donne rappresentano il 36% dei 25 progetti musicali in gara. Tra i 79 autori accreditati nelle 25 canzoni in gara, solo 7 sono donne, nemmeno il 9%. Questa sottorappresentazione femminile nelle file di Sanremo è un problema endemico molto più profondo, che colpisce le posizioni apicali a partire da quella di direttore del primo canale RAI.

Sanremo e le donne, una questione di qualità. Leggi tutto »

Sanremo #quotecelesti

Antefatto: martedì 23 novembre va in scena il panel della Milano Music Week 2022 “Musica e gender equality: Spotify svela a che punto siamo” che presenta i dati di una ricerca fatta in collaborazione con GfK. Spotify svela che siamo ad un punto morto, ovvero che negli ultimi 3 anni, dal 2018 alla prima parte del 2021, i dati sulla presenza delle artiste nelle classifiche italiane sono fissi al 14,1%. 𝘙𝘪𝘱𝘦𝘵𝘪𝘢𝘮𝘰 𝘪𝘯𝘴𝘪𝘦𝘮𝘦: “𝘲𝘶𝘢𝘵𝘵𝘰𝘳𝘥𝘪𝘤𝘪𝘷𝘪𝘳𝘨𝘰𝘭𝘢𝘶𝘯𝘰” In chiusura di panel Enzo Mazza (CEO di FIMI – Federazione dell’industria musicale italiana) annuncia che proporrà ad Amadeus (conduttore e direttore artistico del prossimo Festival di Sanremo) che Il cast dei/delle Big sia composto al 50% da donne. L’ha detto e l’ha fatto. (Fonte: Fanpage.it, «La proposta di FIMI ad Amadeus: Il cast dei Big di Sanremo 2022 sia composto al 50% da donne», 24 novembre 2021) Prontamente Amadeus replica dicendo che “Con grande rispetto non sono d’accordo: non ho mai scelto una canzone in base al sesso dell’artista, sarebbe un grave errore, scelgo la canzone in base alla bellezza” […] “Non vedo perché devo dare una quota alle donne, sarebbe quasi offensivo nei loro confronti. La musica è arte, e nell’arte non puoi creare zone prestabilite”. E ancora “Ti devi lasciar guidare dalle emozioni, dalla vera onestà. Ci sono donne fantastiche in tutti i festival che hanno dato filo da torcere agli uomini (n.d.r. addirittura?) è questa la cosa più importante”. Chiude le polemiche con un triplo carpiato di lavamanismo: “La proposta potrebbe partire dalla stessa industria discografica: sono tutti uomini ai vertici, c’è solo Caterina Caselli alla Sugar, eppure ci sono donne bravissime. Le stesse associazioni musicali hanno tre uomini alla guida: se si tratta di un segnale importante, è giusto che parta dalla grande discografia o dalle associazioni musicali». (Fonte: ​​La Stampa, «Amadeus: dopo di me una donna a Sanremo. No alle quote rosa per i brani, sono offensive», 26 novembre 2021) Della serie – e parafrasiamo – che se non ci sono donne sul palco di Sanremo è perché scrivono o cantano pezzi brutti, che lui è guidato dalla bellezza e non ci può fare niente e che la vera colpa è delle case discografiche. E anche oggi il suo contributo al gender gap lo darà domani. Fortuna che ci sono i numeri a far luce sulla realtà di questi 70 anni di Festival, e i numeri non parlano di “bellezza” o di opinioni, ci dicono che dal 1951 al 2020, in 70 edizioni: ・ nella sezione BIG ci sono state 745 artiste su 2665 partecipanti (= 27,9%) ・ nella sezione Nuove Proposte ci sono state 226 artiste su 784 partecipanti (= 28,8%) Anche i dati di conduzione e direzione artistica non sono migliori, e qui la bellezza dei brani non dovrebbe contare: ・ 6 conduttrici su 39 (= 15,38%, meno delle artiste in classifica) ・ 1 direttrice artistica su 76 (= 1,3%) (Fonte: Datajournalism.it «Sanremo, non è un festival per donne?», 17 dicembre 2020) Seguendo il ragionamento di Amadeus, questo vorrebbe dire una cosa sola: le donne sono meno brave e cantano canzoni meno belle. Punto. Aggiungiamo che non sono meno brave “solo” a scrivere e cantare canzoni, ma a fare qualsiasi altra cosa, perché le donne non ricoprono mai più degli uomini ruoli di potere, in nessun campo. A questa riflessione viene in aiuto con un suo video l’autrice Elisa Giannini, in arte “Teresa Cinque”, che invoca a gran voce la riduzione delle onnipresenti #quotecelesti. Cosa sono le quote celesti? Beh, se partiamo da un presupposto figlio di un pensiero degli anni ‘20 (del 21° secolo però…), è inverosimile pensare che gli uomini siano la maggioranza in tutti i campi e ricoprano tutti i ruoli importanti per merito, no? Risulta evidente che le quote celesti fanno sì che un uomo ricopra un certo incarico perché è uomo e non per la competenza. Pacifico. Teresa Cinque aggiunge “sennò vorrebbe dire che tutti gli incarichi apicali, decisionali, più importanti, sono ricoperti da maschi perché le donne non sarebbero in grado” […] “Statisticamente, per esempio, nelle università le femmine hanno voti più alti, le laureate sono più dei laureati” […] “quindi se sono lì (gli uomini) sono lì perché sono uomini, non perché sono più bravi”. Com’è che non ne parla nessuno di queste quote? Questo discorso pieghe non ne fa, e sorge spontanea una riflessione. Forse dovremmo smettere di parlare di aumentare le “quote rosa” (o meglio, quote di genere), dovremmo cominciare a parlare di ridurre le quote celesti per cui, tra l’altro, gli uomini al comando stranamente non si sono mai sentiti offesi. Team Equalywww.equaly.it

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