blog

A Sanremo come al solito si canta. Noi, come al solito, si conta

A Sanremo come al solito si canta. Noi, come al solito, si conta SPOILER, questo articolo sarà pieno di dati. So che non sono la cosa più sexy che esista, ma se arrivate a leggere fino in fondo vi “svelo” anche perché non si parlerà di tutte le polemiche che stanno girando in questi giorni in merito ai “soliti autori”, i “soliti editori”, “è tutto pilotato”, eccetera, eccetera, eccetera. Veniamo a noi. Prima di addentrarci nell’analisi autori/autrici compositori/compositrici dei brani in gara al 75° Festival di Sanremo (2025), partiamo subito con un grafico aggiornato, quello della presenza di artiste nella classifica FIMI 2024 degli album più venduti. Siamo partite da una nostra vecchia ricerca che prende in considerazione gli anni dal 2012 al 2022, abbiamo aggiunto i dati del 2023, quelli del 2024, e voilà.  Dopo una timida ripresa nel 2023, con le artiste che arrivano a rappresentare il 13% della totalità, segnando un incremento del 3% rispetto al 2022, nel 2024 torniamo a scendere di un punto percentuale arrivando al 12%.  Abbiamo già proposto un’analisi sui motivi per cui la situazione è quella che vediamo nel grafico, da quelli più strutturali (leggi alla voce “patriarcato”), a quelli più contingenti.  Ne aggiungiamo però un altro, fondamentale, ovvero l’arrivo, l’ascesa e la consacrazione della musica TRAP come genere mainstream (o almeno di alcune sue caratteristiche), il cui avvento in Italia a livello temporale coincide con l’inizio della riduzione delle artiste in classifica FIMI, da quando abbiamo cominciato a contare. I motivi sono vari, e anche ultimamente non mancano le discussioni più o meno sensate sulla misoginia di molti testi di artisti trap (leggi alla voce Tony Effe escluso dal concerto di Capodanno della capitale). Posto che parlare di censura nell’arte, e quindi nella musica, credo sia sbagliato per principio, di sicuro un ambiente così escludente tirato su da un genere musicale che si basa di fatto su mascolinità tossica, testi sessisti, misogini, omofobi, potenzialmente offensivi, che descrivono le donne come delle “cose” nella migliore delle ipotesi, di certo non invoglia le cosiddette donne ad entrarci, o almeno la maggior parte di loro (comprensibilmente). Della serie, va bene la musica, ma non tutte sono né paladine della giustizia, né kamikaze, tantomeno hanno voglia di essere, tanto per cambiare, l’elefante rosa nella stanza, o l’amica infiltrata nella chat del calcetto. Insomma, non tutte hanno voglia di fare il quadruplo della fatica dei loro colleghi, solo per riuscire ad entrare nello stesso studio di registrazione e alla fine rischiare di sentirsi comunque escluse dal “gruppo”. Tornando al grafico sulla percentuale di presenza di artiste nella classifica FIMI degli album più venduti dal 2012 al 2024, non abbiamo niente di particolarmente nuovo o incoraggiante da segnalare (ribadiamo che le artiste occupano 12 posizioni su 100), fatto salvo per un paio di riflessioni. Cominciamo con l’elenco delle artiste in classifica: #3 ANNA con l’album “Vera Baddie”#9 ANNALISA con l’album “E Poi Siamo Finiti Nel Vortice”#11 ROSE VILLAIN con l’album “Radio Sakura”#16 TAYLOR SWIFT con l’album “The Tortured Poets Department”#23 BILLIE EILISH con l’album “Hit Me Hard And Soft”#27 EMMA con l’album “Souvenir (Extended Edition)”#34 ANGELINA MANGO con l’album “Pokè Melodrama”#59 CLARA con l’album “PRIMO”#85 ARIANA GRANDE con l’album “Eternal Sunshine”#87 DUA LIPA con l’album “Radical Optimism”#93 ROSE VILLAIN con l’album “Radio Gotham”#95 LOREDANA BERTE’ con l’album “Ribelle” Salta sicuramente all’occhio il 3° posto di ANNA, perché era dal 2018 che un’artista non si posizionava così in alto (nel 2018 il posto più alto per le donne, sempre il 3°, era stato conquistato da LAURA PAUSINI con l’album “Fatti Sentire”); d’altra parte ANNA è stata incoronata anche Woman of the Year ai Billboard Women In Music di settembre 2024, e la sua carriera sembra molto promettente. Per trovare un’artista posizionata “ancora più in alto”, dobbiamo tornare al 2016, con MINACELENTANO (non solo Mina, per intenderci), stabilmente al 1° posto della classifica degli album più venduti. Sono passati 9 anni da allora. Un altro aspetto che salta all’occhio, piuttosto invariato a dir la verità rispetto a tutti gli anni presi in considerazione dal 2012, è che le artiste italiane che riescono ad entrare in questa classifica sono sempre molto grandi, veterane e/o molto conosciute.  Parliamo per l’appunto di ANNALISA, EMMA, LOREDANA BERTÈ..  La cosa si fa ancora più evidente (anche se è più fisiologico) per le artiste internazionali; nella classifica italiana c’è posto solo per le Vere Star, gente del calibro di Taylor Swift, Dua Lipa, Ariana Grande; non esattamente artiste underground. Anche tra le italiane dicevamo, non c’è quasi mai posto per le emergenti o quelle non ancora consacrate, a meno che queste non siano passate da Sanremo, vedi ROSE VILLAIN, ANGELINA MANGO e CLARA (o MADAME nel 2021 che entra al n.5, LRDL nel 2022 al n. 96). Questo non succede per i colleghi artisti. Nella classifica 2024, le 88 posizioni occupate da uomini vedono intuitivamente sia act molto famosi, storici o conosciutissimi per il pubblico medio, sia artisti sconosciuti al pubblico mainstream.. Il FESTIVAL DI SANREMO è quindi importantissimo per le partecipanti, un vero e proprio trampolino di lancio, forse l’unico che garantisca veramente una forte spinta, anche se solo per qualche mese. E allora contiamole queste artiste che saranno presenti sul palco dell’Ariston nel 2025. Questa volta però, andremo più nel dettaglio, analizzando non solo i numeri delle interpreti, ma andando a scomodare pure le autrici e le compositrici che hanno scritto alcuni dei pezzi in gara. LE ARTISTE A SANREMO 2025: sono 13 e mezzo su 33 act*. Facendo un rapido calcolo, rappresentano il 40,9% (se Emis Killa non si fosse ritirato, sarebbero state il 39,7%). Non benissimo ma neanche malissimo. Eccole qui in ordine alfabetico: CLARACOMACOSE (che conta come 0,5)ELODIEFRANCESCA MICHIELINGAIA GIORGIAJOAN THIELEMARCELLA BELLAMARIA TOMBA (nuove proposte)NOEMIROSE VILLAINSARAH TOSCANOSERENA BRANCALEVALE LP e LIL JOLIE (nuove proposte) * rientrano in tutti i calcoli anche le nuove proposte Vediamo però la presenza di Artiste ed Artisti sul palco dell’Ariston, dal 2012 al 2025 Già che ci siamo, proviamo anche a comparare questi dati con

A Sanremo come al solito si canta. Noi, come al solito, si conta Leggi tutto »

SIAE MUSIC AWARDS 2024: UN’ANALISI DEI DATI – Vincitori e Vinte

SIAE MUSIC AWARDS 2024: UN’ANALISI DEI DATI – Vincitori e Vinte Ricordo di sabato 23 novembre 2024, MIlano. È cominciato il freddo, proprio in questa settimana che tra Linecheck e Milano Music Week ti tratta come la pallina di un flipper in un bar anni 60 della pianura padana, in balia di flash, rimbalzi e fredda condensa umidiccia. Mi ritrovo invitata ai Siae Music Awards 2024, seconda edizione di questa nuova serata a premi, il cui intento è quello di celebrare gli autori e gli editori italiani di maggior successo nel nostro Paese e all’estero, con nomination che si basano sulle rilevazioni dei consumi di musica certificati da SIAE e delle royalties distribuite e pagate nel 2024. Puri dati, emozione poca in effetti. Mi sento più imbucata che invitata, anche se l’invito è reale (nel senso di non richiesto) e io sono pure un’iscritta SIAE, una delle poche, considerando che le iscritte SIAE, Società Italiana Autori ed Editori, sono circa il 16% del totale.  Dico “circa” perché la SIAE non pubblica ancora dati certi in questo senso. Mi sono voluta sollazzare con una veloce ricerca online e Google, che pensa bene di eliminare il termine “donna” per trovarmi qualche risultato, ha un involontario senso dell’umorismo più amaro e tagliente di quanto desiderassi. Pure lui ce lo dice esplicitamente, se ci dovessero mai essere dubbi. Mancanti: donne. Il maschile plurale di “Autori ed Editori” che completa la parte del nome “SIAE – Società italiana degli” non è chiaramente usato in senso sovraesteso ma praticamente letterale.  Sento l’ardire di interrogare anche il bot del sito SIAE, a cui è stato dato il nome femminile per eccellenza, quello da cui sono poi derivati tutti i mali dell’uman… insomma, si chiama Eva. Anche Eva appare impreparata alla mia domanda e mi dice: Posto che l’assistenza virtuale che mi rimanda all’assistenza umana è un chiaro esempio di Paradosso del Gatto Imburrato, sappiamo che SIAE in realtà richiede di indicare il sesso a chi si iscrive (almeno tramite app), ma evidentemente non usa questo dato per pubblicare ricerche statistiche. Ricordiamo che la mancanza dell’indicazione del genere all’interno dei metadata dei file dei brani che circolano sulle piattaforme è un tema di cui si sta discutendo ultimamente, perchè di fatto impedisce eventuali operazioni virtuose da parte dei DSP che suggeriscono playlist algoritmiche. Nello specifico, segnaliamo il Music Gender Metadata Manifesto nato dal lavoro di Digital Fems, realtà internazionale che si batte proprio perché l’indicazione del genere di chi canta, suona, compone e produce entri a far parte dei metadati obbligatori. Ma torniamo agli Awards.  Tra un misto di senso del dovere e curiosità, scorro il programma della serata, le nomination e comincio a contare. Appaiono i primi nomi (illustri): Amadeus, M° Valeriano Chiaravalle, Carlo Cracco. Salvatore Nastasi.  Ok.  Concentrandomi su compositori e autori (non editori), scandaglio tutte le persone “nominate” in modalità pesca a strascico e mi concentro su un masochistico esercizio stile enigmistica alla “trova l’intrusa”. Prendo un bel respiro e: A vincere invece sono (ndr, trovate più volte gli stessi nomi ripetuti perché alcune persone hanno ricevuto più nomination) Per maggiore chiarezza utilizzerò l’azzeccatissima soluzione grafica usata da Lineup Without Males. Questo lo stesso elenco di persone nominate, cancellando artificialmente i nomi di autori e compositori: Questo quello dei vincitori, anche qui senza autori/compositori: La questione è letteralmente evidente. Le autrici/compositrici nominate e/o premiate sono pochissime. Niente di nuovo. È interessante anche notare che delle vincitrici, solo Gala è effettivamente un’autrice italiana; nessuna delle tre è iscritta in SIAE, ma rispettivamente in PRS (Gala), e BMI (Kamille e Bebe Rexha). RICAPITOLANDO Su 182 nomination abbiamo: 15 compositrici e autrici (8,2% del totale) 167 compositori e autori (91,8% del totale) Su 44 vincitori abbiamo: 3 compositrici e autrici, nessuna presente alla serata e quindi salita sul palco (6,8% del totale) 41 compositori e autori (93,2% del totale) Questa così bassa percentuale di autrici e compositrici sia nelle nomination che, come dicevamo, nel totale delle persone iscritte in SIAE, porta come conseguenza naturale non solo la loro poca visibilità al pubblico, ma anche la diversissima distribuzione di risorse economiche raccolte da SIAE. Chiariamo, non è responsabilità diretta di SIAE se i brani (e quindi gli autori) più remunerati sono uomini, ma anche SIAE ha bisogno di intraprendere azioni serie e a lungo termine in questo senso, per cercare di ridurre tutti gli squilibri endemici, diretti o indiretti a sfavore di autrici e compositrici. Questo atteggiamento di ignavia rispetto all’argomento da parte di chi davvero avrebbe il privilegio e il potere di cambiare le cose, è di fatto una posizione reazionaria di chi non si sente addosso la responsabilità di farlo. E non raccontiamoci più che gli uomini costituiscono la maggior parte di chi guadagna di più e di chi ha più successo perché sono più bravi (in base alle nomination di questi Award ad esempio, il 91,8%). Abbiamo già spiegato più volte, e per fortuna non solo noi, che non è per questo motivo che in quasi tutti i settori di business gli uomini ricoprono praticamente tutte le posizioni di potere. Il motivo è la cultura patriarcale in cui nasciamo e viviamo (sì, il patriarcato ancora esiste), e una serie infinita di privilegi destinati agli uomini e a loro soltanto.  Abbiamo bisogno di agire su questo tipo di cultura più velocemente di quanto non si stia facendo, anche dalla parte della musica. Per dare più potere economico alle donne che compongono e scrivono (e quindi renderle padrone della propria carriera e della propria arte, dare loro la possibilità, ad esempio, di difendere il proprio apporto creativo all’interno di un brano, chiamato anche “punti autorali”), si deve partire dal cambiare la concezione che si ha delle stesse.  È giusto considerarle delle partner creative, magari geniali, e non solo degli elementi di disturbo, di distrazione, di convenienza o di colore nello spogliatoio del calcetto in cui spesso si trasformano gli studi di registrazione. So bene che “alla creatività non si comanda”, non sto suggerendo di istituire quote di

SIAE MUSIC AWARDS 2024: UN’ANALISI DEI DATI – Vincitori e Vinte Leggi tutto »

Eventi, festival e l’ombra del pinkwashing

Eventi, festival e l’ombra del pinkwashing Assistiamo – con sguardo attento e spirito critico – ad un numero sempre crescente di iniziative da parte di aziende, associazioni ed entità di vario genere, volte a favorire l’empowerment femminile o che veicolano un messaggio indirizzato a creare consapevolezza su gender gap, uguaglianza e inclusione. Molto spesso, però, queste stesse realtà mancano di politiche di genere concrete, o addirittura esse stesse sono state in passato protagoniste di vicende controverse proprio sugli stessi temi che cavalcano nelle loro attività di comunicazione, spesso ricadendo in quello che viene chiamato pinkwashing. Facciamo un passo indietro e partiamo innanzitutto dalla definizione di pinkwashing.  Il pinkwashing indica tutte le iniziative portate avanti da brand, aziende, organizzazioni, non ultime, direzioni artistiche che, con il pretesto di favorire cause sociali relative a un supposto mondo femminile (rainbow washing nel caso della comunità queer o, ad esempio, disability washing nel caso di persone con disabilità), di fatto mirano esclusivamente ad ottenere un ritorno economico e d’immagine. Il pinkwashing è, dunque, una tecnica per le aziende à che fanno credere di sostenere emancipazione e battaglie femministe per vendere di più i propri prodotti o servizi, come se fosse un vero e proprio strumento di marketing, senza policy aziendali concrete o alcun reale legame con l’attivismo e con i movimenti transfemministi. La strategia si dimostra un fenomeno trasversale a tutti i settori: dai brand di cosmesi, all’industria alimentare, dai gioielli all’ abbigliamento, sfruttando a proprio vantaggio ciò che i movimenti riescono ad ottenere con il loro attivismo.  Ci rendiamo sempre più spesso conto che in realtà dietro questo grande interesse nei confronti del femminismo, ci siano degli interessi puramente economici e politici, di facciata insomma, piuttosto che iniziative destinate ad agire concretamente sull’empowerment femminile, parità di genere, diversità  e così via.  Che tipo di credibilità e sistema valoriale possono dunque essere rilevati in tali iniziative? L’interesse verso il movimento femminista, verso la parità di genere, è reale o dobbiamo arrenderci a pensare che sia solo un mezzo per ottenere risultati in termini economici, politici, un “trending topic” da cui non si può essere esclusi?   Come si sta comportando l’industria musicale a riguardo?  Come ci suggeriscono alcune ricerche condotte da Equaly, e i post di sensibilizzazione e denuncia di pagine Instagram come LineUpsWithoutMales.it e La Cantautrice, la situazione è molto delicata. Nonostante ci siano stati dei miglioramenti negli ultimi anni, assistiamo ancora a line up di club, festival, rassegne musicali, qualsiasi evento che veicoli musica, che contano una predominanza maschile, con poco spazio per le artiste, ancor meno per artistə non-binary e trans*, mentre è quasi inesistente invece la rappresentanza BiPOC.  In alcuni casi, questi stessi festival o rassegne dall’evidente sproporzione di presenze di generi diversi, inseriscono nelle loro programmazioni talk e panel proprio sul gender gap nella musica, oppure su argomenti attinenti alle difficoltà che  donne e persone di generi sottorappresentati incontrano sul lavoro,come ad esempio la genitorialità), accessibilità e sostenibilità.  A maggio 2024 il Ministero della Cultura ha organizzato un incontro istituzionale dal titolo “Canzoni contro le donne: che fare?” i cui panelist non solo erano tutti uomini, ma erano presenti tra gli speaker personaggi controversi. Un altro evento, che ha mostrato interesse ai temi del gender gap e dell’inclusione sociale – citandoli nelle prime righe del proprio comunicato stampa e facendo riferimento ai punti dell’ASVIS (Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile dell’ONU) – ha poi organizzato live di chiusura proponendo una line up composta al 100% da uomini bianchi. Oppure succede che alcune realtà firmatarie del pledge di Keychange – la rete globale sostenuta dall’Unione Europea che lavora per raggiungere la piena parità di genere nell’industria musicale – e attivissimi portabandiera della causa, finiscano  per essere loro stessi protagonisti di vicende controverse. Per un futuro (realmente) ampio che favorisca le diversità  È arrivato il momento per l’industria musicale di passare dalle parole all’azione. Non è infatti più sufficiente mettere una bandierina, proclamarsi vicino alle  comunità marginalizzate o promotori e promotrici di equità se poi nei fatti la situazione del panorama musicale continua ad essere immutato (se non peggiorato) dal punto di vista della rappresentanza di genere. Sarebbe il momento di vedere meno slogan e più realtà che concretamente portino sia lə artistə sui palchi che più rappresentanza dietro le quinte, dai lavori tecnici ai ruoli decisionali. A chiunque voglia approcciarsi a queste tematiche, ricordiamo che esistono realtà che si occupano di diversità, accessibilità, parità di genere e con cui possono informarsi e costruire un dialogo. L’industria musicale ha bisogno di comprendere realmente il significato delle parole “parità di genere”, “diversità”, “accessibilità” per capire quali concetti queste espressioni racchiudano, e cosa fare di conseguenza nel pratico.  Ben consapevoli di quanto la questione economica sia un dato da tenere a mente, vogliamo sottolineare ancora una volta la narrazione sbagliata che chiamare artistə possa inficiare la buona riuscita di un festival. La credenza comune che le donne non portino pubblico (e quindi soldi) è un retaggio patriarcale che va smantellato un pezzo alla volta, cominciando dall’aprire gli occhi (e le orecchie) sul fatto che, al giorno d’oggi, non possono più reggere scuse per giustificare l’assenza di artistə dai palchi (le più comuni “non ne conosciamo nessuna” o “nessuna era disponibile”) perché c’è una nutrita schiera di di artistə, musicistə, producer e performer. Sulla pagina instagram lacantautrice o fluidae_collective, ad esempio, si può trovare un archivio di artistə emergenti provenienti da tutta Italia in costante, aggiornamento.  Cosa possiamo fare insieme? Per fare in modo che le cose cambino è necessaria una presa di responsabilità da parte di tutti i soggetti che, insieme, compongono il panorama musicale italiano.  La realtà può cambiare anche attraverso l’inserimento di nuove abitudini: proporre sempre più artistə, ingaggiare sempre più sound engineer, stage manager donne e persone che si identificano in generi sottorappresentati, creerà una nuova normalità e smantellerà nel tempo la percezione patriarcale che la musica sia un “lavoro da uomini”. Chiediamo agli artisti, ai manager, ai discografici, dove possibile di usare il loro privilegio maschile per sottolineare l’assenza delle

Eventi, festival e l’ombra del pinkwashing Leggi tutto »

I numeri dei festival italiani 2023

I numeri dei festival italiani 2023 In queste ultime settimane abbiamo presentato in diverse città italiane il primo report relativo alla violenza di genere nel nostro settore, ricerca sviluppata e portata avanti insieme alla dott.ssa Rebecca Paraciani, in collaborazione con la dott.ssa Alessandra Micalizzi, basata su 153 risposte al nostro questionario in merito. Ma da quando abbiamo iniziato a promuovere questo tour, abbiamo raccolto moltissime altre risposte. (Il questionario è sempre aperto e anonimo e puoi compilarlo qui) Il report dipinge un quadro piuttosto chiaro rispetto a quanto le donne possano sentirsi libere di intraprendere e portare avanti una carriera in questo settore, visti i soprusi, le vessazioni, le molestie, gli insulti, le discriminazioni, le pressioni e persino le aggressioni fisiche a cui sono sottoposte mentre cantano, suonano, allestiscono palchi, viaggiano o stanno a una scrivania. Che questo abbia un impatto tangibile sulla presenza delle donne nella musica in Italia, è ormai innegabile, e i numeri, ovunque e comunque, lo dimostrano. Anche quest’anno abbiamo studiato le line up di alcuni festival della nostra penisola, in particolare, della stessa selezione dell’anno scorso, ad eccezione di due che non si sono più tenuti e altri 2 divenuti rassegne con serate a tema, per un totale quindi di 34 lineup e, come sospettavamo, non è cambiato granché. La percentuale delle artiste soliste scende dal 17,65% del 2022, al 15,60% nel 2023. Leggermente migliorate le band con almeno una donna, che salgono dal 4,9% al 9,36%…parliamo sempre di numeri bassissimi: in questo campione, infatti, ci sono ben 9 festival che contano un totale di 0 artiste soliste, e altri 6 soltanto una. Aggiungiamo, visto che è stato annunciato in pompa magna al tg nazionale in prima serata, l’evento televisivo che fa delle co-conduttrici il proprio “scudo della parità”: il Festival di Sanremo. Con grande sorpresa di nessuno, su 27 concorrenti, ci sono solo 9 artiste, contando anche Angela Brambati, voce dei Ricchi e Poveri. Ogni volta che parliamo di presenza, o meglio assenza, di donne sui palchi, sentiamo sempre le stesse giustificazioni: Eh, ma le donne non portano pubblico Sono le agenzie di booking che non le propongono Sono i discografici che non ci investono Quali artiste? Non ci sono, ne ho chiamate 2 e avevano altre date Le donne non si propongono, sono insicure E via discorrendo. Insomma, è sempre responsabilità di qualcun altro, financo dell’intero genere femminile che sembrerebbe essere afflitto da un’atavica epidemia del famigerato malessere denominato “Insicurezza”. Non è questo il luogo opportuno per discutere su come tale “patologia” sia sì diffusa, ma di certo non innata (fatevi un giro nei centri d’infanzia e ditemi se la quasi totalità delle treenni o quattrenni vi sembra insicura, vi aspetto, sto qua), quanto piuttosto indotta da una dinamica patriarcale, comunemente nota come sindrome dell’impostora. Per tentare di approfondire il dibattito vi rimando al nostro blog, in particolare agli articoli scritti da Francesca Barone. Oggi possiamo provare, grazie al nostro report, e testimonianze raccolte, anche dal vivo, della nostra community, che l’Insicurezza sia l’ostacolo minore alla carriera di una donna nel mondo della musica.  Tutto il materiale che abbiamo raccolto ci mette di fronte alla precisa volontà di contrastare il successo delle artiste nel nostro settore o quanto meno di quelle che non si piegano alle leggi del mercato capitalista e maschilista. In ogni caso il risultato è un’esclusione scientifica da ogni aspetto della filiera creativa. Lo abbiamo appena visto, a fine novembre, alla prima edizione dei SIAE awards, una celebrazione dei migliori autori ed editori, dove, su 12 categorie (39 firme), appare una sola autrice, Victoria De Angelis, insieme agli altri 3 componenti dei Maneskin, per il loro I Wanna Be Your Slave. La serata, per giunta, è stata presentata da tre conduttori speciali: Alessandro Cattelan, Claudio Baglioni e Salvatori Nastasi, con l’accompagnamento degli Street Clerks, gruppo di soli uomini, che spesso fa il paio con Cattelan. Insomma, questa volta, nemmeno il (seppur triste) tentativo di salvare la faccia con una moderatrice o con una co-conduttrice come va di moda dire in questo periodo dell’anno. Ma lo riscontriamo anche nelle classifiche, che siano FIMI, Billboard o il recente Spotify Wrapped. Quest’ultimo dettaglia le preferenze di ascolto del pubblico, mondiale e nazionale, dove, tra le altre cose, si delinea perfettamente la ricaduta che ha una kermesse come Sanremo sulle scelte del pubblico, nelle prime posizioni infatti ne arrivano diverse. Tra le canzoni più ascoltate dell’anno, nello specifico nella top ten, compare una sola artista, ANNA, che è anche l’unica italiana nella top 20 degli artisti più ascoltati dell’anno. Naturalmente si può intersecare il discorso anche con il genere musicale ma alla fine non sposta molto. Chiudiamo questo 2023 senza grandi conquiste in fatti numerici ma speriamo che, con il nostro lavoro, si stia creando maggior consapevolezza nel settore e che questo faccia partire una reazione, una scintilla, un’intenzione nel voler condividere il potere, il successo, le opportunità.  Segnate queste tre paroline, è di questo che parliamo. Ed è un paradigma che ci auguriamo veda un miglioramento nel 2024. I primi annunci sono già usciti e noi continueremo a contare. *facciamo divulgazione e ci fa piacere veder girare i nostri dati e le nostre riflessioni. Ma così come facciamo noi col lavoro di altre persone, se riportate i nostri approfondimenti nei vostri articoli/post vi chiediamo gentilmente di citarci. Facebook Instagram Linkedin Irene TiberiIrene Tiberi lavora da 13 anni presso Fondazione Musica per Roma, ente che gestisce l’Auditorium Parco della Musica di Roma, prima in area produzione e recentemente in promozione e vendita. Dal 2019 al 2021 è stata projects coordinator per shesaid.so Italy.  Nel luglio 2021 fonda, insieme ad altre 6 donne del settore, Equaly. Precedentemente ha scritto diverse recensioni e articoli, per diverse webzine, su danza e musica e ha vissuto qualche mese al Cairo, collaborando con l’ANSA, dove si è occupata di ingiustizie sociale come la mutilazione genitale femminile e la persecuzione della comunità LGBTQ+. Nata a Roma, cresciuta tra gli USA, Svizzera e Italia, ha conseguito una laurea magistrale in

I numeri dei festival italiani 2023 Leggi tutto »

Travolta da un profondo disagio nell’azzurro mare d’agosto

Travolta da un profondo disagio nell’azzurro mare d’agosto Lo ammetto, sono rimasta immobile, ammutolita, attonita, sconcertata. Agosto 2023 è stato come stare legata al vagone di una montagna russa di un perverso parco giochi per femmine (ancor più per femministe). Poche gioie e molti dolori: una raffica di ganci sinistro-destro ben assestati allo stomaco, la forte nausea, qualche leccata di gelato per trovare sollievo. Da una parte le odiose sentenze scatena-rabbia, i femminicidi e le notizie di violenze purtroppo tutt’altro che inaudite, la morte aspettata ma inaspettabile di un faro politico e culturale come Michela Murgia, e molti altri futili fastidiosi episodi; dall’altra il film di Barbie, le reazioni che ti inorgogliscono del mondo degli attivismi e il timido aumento (ma sempre l’aumento) di sussulti (a volte spasmi) di consapevolezza da parte di maschi sparsi. Agosto pace mia non ti conosco: un downburst di trigger condito con olio evo, sabbia e sudore. Tutto questo mi ha annichilita, mi sono sentita impotente, mi sono tenuta distante. Sia per non rovinarmi completamente le vacanze, sia per non farmi annientare, sia per prendere il tempo e lo spazio che mi serve per elaborare una nebulosa così soffocante di avvenimenti. Fatta eccezione per una storia su Michela Murgia, non ho pubblicato niente, non ho commentato niente, ho letto il minimo indispensabile che la mia coscienza mi richiede, e ho aspettato. Ho aspettato che la vista di quel grumo purulento di emozioni si facesse meno sfuocata; che il miasma di quell’ammasso di rifiuti marci rimasti sotto il sole colante d’agosto si facesse meno acre. Non sono un’attivista d’assalto. Le cose ho bisogno di vederle bene, di capirle, di leggerle, di ripensarci, di ricredermi, di rileggerle, di ripensarci, di ricredermi, di ripensarci. Sentivo il bisogno di esprimere qualcosa ma non riuscivo a trovare una forma consona all’intimità delle mie sensazioni. Una storia? Ma su cosa? Molte storie? Su tutto? Un post? Solo uno? No. Ho lasciato perdere, ho aspettato che sul fondo del becker si depositasse il precipitato più pesante per poterlo guardare bene, questa volta avvicinandomi. Ho osservato, ho visto, ho pensato, mi sono ascoltata. Dopo tutto quello che è successo, dopo tutto quello che è stato detto e scritto a riguardo, da da Giulia Blasi, a Carlotta Vagnoli, Carolina Capria, Azzurra Rinaldi, Maura Gancitano, Lorenzo Gasparrini, Jennifer Guerra (solo per fare qualche citazione), dopo tutto quello che ho letto, una sensazione mi è rimasta. In mezzo alla melma fangosa sdraiata a terra, qualcosa luccica. Ho sentito chiaramente pronunciare le parole “giuste”, usate nel contesto “giusto” per descrivere esattamente quei concetti: patriarcato, cultura dello stupro, femminismi, maschilismo, sessismo. Questa volta non da personalità del mondo dell’attivismo, ma da quello del giornalismo, dalla TV generalista, diamine, da Barbie e Ken! La sensazione è quella di quando sei all’estero e con la coda dell’orecchio senti qualcuno parlare la tua lingua; il sollievo è immediato, insieme alla speranza (l’illusione) di sentirsi parte di qualcosa. Un luccichio. Sarà una pagliuzza d’oro sul letto del fiume; sarà il riflesso di una lama pronta alla battaglia; sarà qualche lacrima nuova, mai versata, illuminata dalla luce di uno smartphone. Ma qualcosa c’è. E luccica. #riflessioni #violenzadigenere #attualità #cronaca #attivismo #agosto2023 Francesca BaroneFrancesca Barone è un’esperta di diritti musicali, di sincronizzazioni e di music business in generale. Professionista dell’industria musicale e della gestione di diritti in ottica business, è attualmente Music Supervisor indipendente per sincronizzazioni di ogni tipo (pubblicitarie, cinematografiche, televisive etc). Precedentemente Content Rights Manager, attuale consulente musicale per Dolce&Gabbana, con più di 16 anni di esperienza nel music business italiano, ha lavorato come Licensing Manager per Universal Music Publishing, come Sync Manager di Extreme Music e A&R per Sony Music Publishing, e come Consulente Musicale per Emi Music Publishing per i cataloghi di production music. È Consulente, docente per diversi corsi in scuole di formazione, scuole di musica e università italiane. Attivista femminista, è co-fondatrice di Equaly.it, la prima realtà ad occuparsi di parità di genere all’interno dell’industria musicale italiana. Con il nome di Franca Barone, ha pubblicato due album in qualità di cantautrice, compositrice e produttrice.

Travolta da un profondo disagio nell’azzurro mare d’agosto Leggi tutto »

Stop treating women like shit when they’re alive

Stop treating women like shit when they’re alive L’industria musicale, e non solo, non ha mai fatto sconti alle sue artiste. “Come ci può essere QUALCUNO sorpreso dalla morte di Sinéad O’Connor? Chi si è curato abbastanza di loro per salvare Judy Garland, Whitney Houston, Amy Winehouse, Marilyn Monroe, Billie Holiday? Dove vai, quando la morte appare come la via d’uscita più facile? Questa follia della musica valeva la vita di Sinéad? No, non la valeva. Lei era una sfida, non poteva essere inscatolata, e ha avuto il coraggio di parlare quando tutti gli altri stavano in silenzio per non avere problemi. Tormentata per il solo fatto di essere stata se stessa.” Prima di Morrissey, a ricordarci dell’ignobile falla nel sistema, c’è Jude Ellison S. Doyle, che alla questione dedica un intero libro: Trainwreck (Spezzate – Tlon). Tradotto alla lettera, Trainwreck riporta a un disastro ferroviario, un cortocircuito, un fenomeno squisitamente femminile su cui media e industria si accaniscono da sempre. I primi per andare incontro a una grossa fetta di voyeur, la seconda per scaricare in fretta l’artista che non si adegua allo standard. The Lion and the Cobra è uno degli album di debutto più elettrizzanti della storia del pop. Ma già dalla copertina si è costretti a una mediazione. Sinéad, con la testa rasata per protestare contro un’immagine della donna ipersessualizzata, ritratta in primo piano mentre grida, è troppo aggressiva. Per il mercato americano e canadese meglio un artwork più conciliante, capo chino e sguardo a terra: da un atteggiamento di sfida si è passati a uno di resa. Tutto accade molto in fretta nella vita di questa giovane donna, la sua carriera esplode nel secondo album I Do Not Want I Haven’t Got del 1990 contenente Nothing Compares 2 U, brano scritto da Prince e passato alla storia nell’interpretazione di Sinéad. Grazie anche all’ipnotico videoclip, la canzone diventa da subito il testamento di un’artista ricordata soprattutto per questo successo e per un gesto che non ha nulla a che fare con la sua musica. Il 3 ottobre del 1992, ospite al Saturday Night Live per la promozione del suo ultimo disco, Sinéad sceglie di cantare un brano che non è contenuto nell’album: si tratta di War di Bob Marley, una forma di protesta contro la pedofilia nella chiesa cattolica. Durante l’esibizione prende una foto di papa Giovanni Paolo II e la strappa in favore di camera. Da questo momento in poi la sua vita non sarà più la stessa. Ann Powers, già alla fine degli anni Novanta, sollevava una domanda: se fosse stato Iggy Pop a strappare la foto del papa, le reazioni sarebbero state le stesse? “Sinéad è trasgressiva, ma non nel modo in cui piace lo siano le ragazze. Il fatto che sia un imbarazzo nella scena mentre altre artiste, altrettanto spericolate, vengano lodate per l’audacia, rivela il codice segreto cui le donne devono ancora sottostare: puoi peccare, ma è meglio si tratti di peccati di lussuria”. Tutti amano la voce di Sinéad, molti apprezzano il suo look androgino, pochi sposano il suo credo, nel tempo sempre più radicalizzato. Un vagabondaggio spirituale che è un po’ l’afflizione e il dono che ha ispirato molti artisti irlandesi, nel suo caso mai appagato. Lo racconta bene Glen Hansard in uno di suoi ultimi post: “L’Irlanda ha sempre preferito i suoi eroi sul muro. Troppa paura di affrontarli nella stanza. Ora possiamo facilmente appendere la sua fotografia alla parete e venerarla per la gigante che era. Sinéad ha sempre gettato la testa oltre il parapetto. Adesso riposa giù, alle radici di ciò che ci rende migliori.” In occasione dell’ultima vigilia di Natale, Sinéad O’Connor si è unita a un gruppo di musicisti in Grafton Street a Dublino per l’annuale supporto ai senzatetto della città. A invitarla lo stesso Hansard, che già in passato aveva tentato di mettersi in contatto con lei. Non sappiamo in quanti ci abbiano provato davvero, sappiamo però che non sono mancati attestati di stima, incoraggiamento e supporto da altre artiste non allineate al sistema: Cat Power, Amanda Palmer, Fiona Apple. Quando Morrissey snocciola i nomi delle artiste messe al bando dall’industria ne cita solo alcuni, l’elenco è infinitamente più lungo: Connie Converse, Janis Joplin, Judee Sill, non sono riuscite a sopravvivere a lungo; chi ce l’ha fatta – Karen Dalton, Betty Davis, Sibylle Baier, Vashti Bunyan, Linda Perhacs – è stata costretta a cambiare rotta. “Se per gli uomini nomadismo significa libertà, per le donne è condanna alla solitudine. Le nobody’s girls, le ragazze di nessuno, senza radici, senza legami, sfuggono alle convenzioni, ma anche al dolore e soprattutto a se stesse. Una vita di stanze d’albergo, camerini, aeroporti, autostrade, voli intercontinentali, palchi in città di passaggio, serate che spesso si risolvono in mezzi fallimenti, per colpa di problemi tecnici, dell’alcol o della tristezza“. Ce lo ricorda la giornalista Paola De Angelis quale è stato il prezzo che molte musiciste hanno pagato per essersi sottratte alla vita domestica negli anni Cinquanta e Sessanta e oggi, siamo così sicure di esserci allontanate da questo stereotipo? Siamo così certe che l’industria sia pronta a supportare le artiste che confessano fragilità, irrequietezza o disturbi mentali? In ogni campo e in ogni epoca la strada è stata e continua a essere accidentata per ragazze che non si riconoscono in certi schemi, divise tra scelte di vita affatto scontate, percorsi sghembi e ingegno. Ma arrivate fino a qui è bene tenere a mente le parole della scrittrice britannica Helen Lewis “Le donne educate non fanno la storia. Le donne difficili sì”. Laura Gramuglia *facciamo divulgazione e ci fa piacere veder girare i nostri dati e le nostre riflessioni. Ma così come facciamo noi col lavoro di altre persone, se riportate i nostri approfondimenti nei vostri articoli/post vi chiediamo gentilmente di citarci. Facebook Instagram Linkedin Laura GramugliaLaura Gramuglia è speaker, dj, autrice, storyteller e operatrice culturale. È stata tra i conduttori di Weejay a Radio Deejay. Ha scritto di musica e donne su «Rolling Stone», «Tu Style», «Futura», «Vinile»

Stop treating women like shit when they’re alive Leggi tutto »

Lui è passato, ciò che ha fatto è ancora qui

Ieri mattina mi sono ritrovata a mandare un messaggio a una mia amica, compagna stabile di tutte le manifestazioni a cui ho partecipato. Le ho scritto “l’uomo contro il quale abbiamo manifestato mille volte è morto. Lui è passato, ciò che ha fatto è ancora qui”. Ed è questo, infatti, quello che penso da lunedì, da quando è uscita la notizia e ho sentito su di me – nata negli anni ’80 e vittima di tutto quello che, con precisione, ha spiegato Carlotta Vagnoli – come un dovere di riflettere su di lui e su ciò che ha significato per la mia generazione. E, complice la lettura di un elzeviro di una nota giornalista e a funerali fatti, ho raccolto intanto le idee su ciò che Berlusconi ha significato per la figura della donna in Italia.   Nei primi decenni del ‘900 eravamo vittime di un potere patriarcale profondamente radicato nella nostra cultura, coadiuvato da due fattori fondamentali: la bassissima scolarizzazione delle donne e la negazione del loro diritto al voto. Poi le cose sono cambiate. Complice il boom economico più donne hanno potuto studiare, gli assetti sociali sono mutati e le donne sono entrate nel mondo del lavoro, anche se – soprattutto – come operaie. E così il ‘68, la rivoluzione culturale, le conquiste come il diritto all’aborto e il divorzio. Era un nuovo punto di partenza per l’emancipazione delle donne, sorretto proprio dalla loro maggiore partecipazione e presenza nella società. E, per questo, su alcuni aspetti non si poteva tornare indietro. La donna non era più completamente “santa”, nascosta, inferiore, la donna poteva aspirare a un nuovo posto nella società, anzi, finalmente poteva aspirare a un posto nella società. Le basi si erano formate, le lotte andavano avanti in un modo evoluto nelle trame della vita quotidiana… Eppure, ecco che appare un’altra immagine della donna. Nell’Italia anni ‘80, ubriaca di ricchezza, consumismo, potenza, avidità, dove anche il piccolo borghese poteva sognare la seconda casa al mare, nasce una rete televisiva dove quella culturalmente perfetta rotondità dell’ombelico di Raffaella Carrà – che sì, significava davvero libertà ed emancipazione – diventa l’ombelico urlato della “ragazza del Drive In”, simbolo del desiderio sessuale dell’uomo, con le loro gambe completamente nude e i seni coperti a malapena e – di nuovo, come 40 anni prima – sempre e solo accanto (ma un passo indietro) all’uomo che conduce il discorso, che ne fa scherno e la tratta come essere intellettualmente inferiore, come inutile complemento d’arredo. Tutto come prima, ma stavolta, in più, spogliata. Nella generazione di chi era nato negli anni ‘60, ‘70 e ‘80, quella donna diventava un modello da cui era difficile scostarsi se in famiglia, a scuola, non ne venivano forniti gli strumenti per la decostruzione. È stato fatto questo esempio da molte persone prima di me, ma lo ripeto perché rivela in modo lampante e chiaro cosa fosse quella televisione. Prendete un fermo immagine di una puntata qualsiasi di Striscia la Notizia: vedrete due uomini seduti, in giacca e cravatta, con tanto di targhetta col cognome e poi, accanto, prima ad agitarsi in un provocante balletto (in bella mostra, su una specie di palco) e poi in ginocchio, senza facoltà di parola e in bikini, due ragazze giovanissime, chiamate solo col nome, una bionda e una mora, così da accontentare tutti i gusti. Giacca e cravatta e facoltà di parola (e soprattutto di battute) vs bikini e nessuna parola. Così, tutte le sere, tutti i giorni, tutto il giorno, tra veline, letterine e vallette. Donna da mostrare, inderogabilmente bella e provocante, inderogabilmente disponibile agli sguardi, alle battute, all’uomo. Guardiamoci attorno, questo concetto è permeato anche nella musica, dove l’uomo può essere brutto, la donna no e – se non rientra nel concetto di bellezza – viene automaticamente trasformata in un “personaggio”. E lo notiamo anche quando, ad esempio, della partecipazione al Festival di Sanremo 2022 di Noemi si è parlato quasi esclusivamente dei suoi chili persi e quasi per niente della canzone proposta o quando, nelle recensioni dei dischi si legge un commento sull’aspetto fisico di una cantante, totalmente avulso dalla qualità o meno del suo prodotto discografico. Per fare un ultimo esempio, lo notiamo ancora fortemente quando, dal pubblico di un concerto, una cantante si sente rivolgere un umiliante e sgradevole “faccela vede’”, emblema di una convinzione che la donna sia un oggetto e l’uomo un simpatico guascone che tutto può dire, fare, volere. Con l’intuito dell’uomo vincente d’affari (ovviamente di affari solo suoi), Berlusconi ha lanciato una televisione crassa, edonista, consumista, dove veniva (e viene) celebrato l’uomo di potere, ricco, “che non deve chiedere mai”; viene applaudito un maschilismo ormai esibito e l’uomo può dare sfogo a tutti i suoi formicolii e fornicazioni. Un uomo (vestito) che dispone di tante donne (svestite, quindi percepite inferiori) intorno a lui, in una televisione dove, se si analizza la maggior parte dei programmi tra reality e talk show, si dà troppo spazio e troppo riverbero a un essere umano bieco, incolto, ferino, urlante e guidato dai più bassi istinti; homo homini lupus. Anni fa partecipai alla presentazione di un libro di uno storico uomo di televisione deceduto da poco, che aveva costruito prima la Rai e poi Mediaset. Alla mia domanda sul perché lui, giornalista profondo, ideasse e promuovesse tali programmi, rispose “perché questo è ciò che vuole il pubblico”. Mi dissi che aveva ragione, rimasi ferma su questa frase per un po’. Poi, ormai a incontro finito, realizzai che, forse, fosse più giusto dire che “questo è quel che il pubblico crede di volere” perché magari non ha mezzi per volere altro, perché vede solo questo e perché – nel pieno concetto del “fast food” – è la cosa più facile da consumare, soprattutto perché asseconda i nostri istinti più beceri. Come la tv contribuì tantissimo all’acculturazione del Paese negli anni ’50, penso che parimenti possa e debba fare anche 70 anni dopo, nel XXI secolo, anche se è sicuramente meno centrale rispetto a prima. Fossi nelle giornaliste e

Lui è passato, ciò che ha fatto è ancora qui Leggi tutto »

Di Rihanna, di Levante, di esterofilia e di madri dee o fallite

All’indomani della kermesse nostrana, veniamo subito riportati alla realtà del nostro adorabile provincialismo dall’esibizione di Rihanna durante l’halftime show del SuperBowl, nello State Farm Stadium di Glendale, Arizona, U.S.A., ué. Ma che è l’halftime? Niente, praticamente gli americani, dagli anni Sessanta circa, durante l’intervallo della finale del campionato di football, anziché andare a fare pipì, fanno tutta una festa nella festa, con inno nazionale cantato da gente famosa, le marching band delle scuole superiori e dei college. Agli inizi così, tra il sobrio e…vabbè, l’americano. A partire dagli anni ’90 poi, l’interludio musicale durante l’halftime (il nostro fine primo tempo per intenderci) del Super Bowl (cioè la finale) della National Football League (NFL), grazie all’avvento di importanti sponsor e di importanti producer, inizia conseguentemente a diventare un evento in sé, per l’appunto, importante. Infatti, l’esibizione allo stadio si trasforma definitivamente nel consacramento di artisti e artiste che ne sono headliner e che lo considerano uno dei momenti più alti della loro carriera, che li storicizza di fatto. Un esempio su tutti, il tributo a Dr. Dre, con lo stesso Dr. Dre, dell’anno scorso. Abbiamo già detto: storia. Anche se c’è da dire che succede pure l’esatto opposto, come accaduto nel 2004, quando sul finale del loro duetto, Justin Timberlake scopre un seno di Janet Jackson segnando, sì una pietra miliare, ma del declino della carriera, stranamente, di Janet, non di Justin. Ma questa è un’altra storia…anche se forse non proprio, ora vediamo. È stato anche palcoscenico di forti messaggi politici, come quello di JLo e Shakira che due anni fa hanno protestato contro il governo Trump, proponendo una scenografia che includeva bambine e bambini in gabbia, come stava facendo realmente l’amministrazione al confine con il Messico. Un altro esempio è stato il rifiuto, proprio di Rihanna, a esibirsi nel 2019, in protesta con la NFL che nel 2017, sotto pressione della presidenza Trump, aveva cacciato il giocatore e attivista Colin Kaepernick perché continuava a inginocchiarsi durante l’inno nazionale, a sua volta in protesta per la brutalità della polizia statunitense. Ma torniamo nel 2023. Dunque. Una produzione della madonna (metafora non casuale), con pannelli trasparenti che volano, scendono, salgono fino ai fuochi di artificio, con sopra e sotto un esercito di ballerini di bianco vestiti (sorry Mr. Rain, a lei l’effetto corale è riuscito meglio) che ballano all’unisono circondando lei, l’inarrivabile in tuta rossa, che viene subito inquadrata in primo piano svelando il suo sguardo tra il birichino, l’omicida e lo strafottente. Siamo già in adorazione. Girl power. God is a woman. Parte la musica, canta, balla, la telecamera segue la mano di Rihanna che scende sul ventre e, colpo di scena, RiRi ha un’altra pagnotta nel forno…dopo aver partorito a maggio. Maggio 2022. First reaction, sì ho capito lo shock, ma soprattutto uno “spem” di manrovescio per noi normodotate che avremmo subito approfittato della tavola “surfa nei cieli” per schiacciare un pisolino, letteralmente tra le braccia di Morfeo, lontane dalla nostra prole messa al mondo poco prima. Che dire, come se non fosse già un evento mondiale e di incredibile rilievo, mettiamo altra carne al fuoco. Rihanna è subito acclamata ovunque come la queen, la self made woman, che manco la neomaternità o la gravidanza in corso possono fermare. Addirittura a un certo punto, un ballerino le passa una cipria e lei si ritocca al volo il trucco, ma non è UNA cipria, è la SUA cipria. Certo, perché non è che in 7 anni via dal palco si sia annoiata, ha anche creato una linea di cosmetici e siccome l’halftime è suo e di nessun altro, decide lei, si pubblicizza tutto quello che vuole, alla grandissima. Una donna padrona al comando. Viemme a di’ qualcosa. This girl is on fire e via discorrendo. Abbiamo detto che la gravidanza è stata una sorpresa, non era annunciata, nemmeno nelle interviste a ridosso dell’evento. Viene da chiedersi perché. Davvero aveva pensato che sarebbe stato l’annuncio migliore che potesse fare? …o è stata cauta? Se non se la fosse più sentita di esibirsi? Se la ginecologa le avesse detto il giorno prima “Riha’, no.”, come sarebbe andata? Sicuramente RiRi è realmente strafottente dell’opinione altrui esattamente come sembra, ma per un attimo facciamo finta che non sia così. Anzi, fingiamoci la madre, la manager, la responsabile di comunicazione, chiunque del suo entourage che abbia tutto l’interesse a proteggere lei, la sua immagine e la sua reputazione (e la sua commerciabilità, ché il mondo va così, diciamocelo). Se avesse annunciato la nuova gravidanza e avesse poi cambiato idea rispetto all’halftime, cosa avrebbero scritto di lei? Queen? Badass? Brava? Non so. Gli Stati Uniti sono famosi per aver prodotto grandi storie di eroi ed eroine che servono da esempio, che devono guidare una certa mentalità del “we are the champions”, di riuscire, se in solitudine anche meglio, una forza ostentata, senza mai mostrare eventuali lati oscuri e taciuti (penso all’incubo vissuto dalle ginnaste americane e poi dalle ginnaste italiane…perché nemmeno quella è un’altra storia). Parliamo inoltre di una donna nera, dea, regina, survivor che tutto può e tutto sopporta, senza lamentarsi, che non si piega mai, soprattutto davanti agli oppressori, perché più è forte e più è d’esempio. Più è guerriera, insomma, come lo stereotipo a cui stiamo pensando. L’avrebbero accettato un ripensamento del genere, in un paese in cui la maternità non gode di alcuna considerazione e che se non lavori per un’azienda che integri i tuoi diritti, devi prenderti le ferie per andare a partorire e vincere alla lotteria per accedere a strutture quali nidi, asili ecc.? Già vi sento “ma quella è miliardariaaaa”. Ma va? Il fatto è che le opportunità non passano solo dalle tasche. Le condizioni per potersi godere i propri tempi per diventare genitore e gestirsi secondo il proprio libero arbitrio non sono solo economiche ma anche e soprattutto culturali e sociali. Mentre applaudiamo quella gran figa di Rihanna, teniamo a mente che, sebbene in cuor nostro la vogliamo pensare libera e spensierata, c’è una possibilità che queste pressioni

Di Rihanna, di Levante, di esterofilia e di madri dee o fallite Leggi tutto »

CLASSIFICA FIMI 2022 – Cultura italiana 3 – Parità di genere (quasi) 0

Se fosse una partita di calcio, il risultato sarebbe schiacciante: Cultura italiana 3 – Parità di genere (quasi) 0. Ma andiamo con ordine. Gennaio 2023, sono uscite da pochissimo le classifiche annuali di vendita FIMI per il 2022, sia album e compilation che singoli. Abbiamo analizzato la classifica degli album più venduti del 2022 sotto un’ottica di parità di genere, per vedere se la presenza in classifica delle artiste è diminuita, aumentata o se è rimasta invariata rispetto ai risultati che avevamo già riscontrato negli anni precedenti. Per fare le cose come si deve, oltre al 2022 abbiamo preso in esame i 10 anni dal 2012 al 2021. (Nota: non sono state oggetto di quest’analisi le posizioni ricoperte da compilation). Per il 2022 il numero che cercate è questo: 10%. Le artiste in classifica FIMI 2022 degli album più venduti rappresentano il 10% circa del totale, un valore che si commenta da solo. Ma qual è la tendenza generale? Stiamo andando meglio? Stiamo andando peggio? Cerchiamo di scoprirlo. IL PREGRESSO: 2012-2021 In un altro articolo abbiamo già citato queste percentuali:  nel 2018 la presenza di artiste in classifica era del 14% nel 2019 si assestava sempre sul 14% nel 2020 scendeva a 11,34% nel 2021 arrivava all’11,22% Questa volta abbiamo deciso di andare oltre e di spingerci con l’analisi dei dati fino al lontano 2012, un anno prima dell’arrivo di Spotify in Italia, per intenderci. Ecco cosa abbiamo trovato: La tendenza è chiara ed evidenzia la progressiva riduzione della percentuale di artiste presenti in classifica passando dal 27% del 2012 al 10% del 2022 con un salto verso il basso di 17 punti percentuale. Combinando questi dati con quelli relativi agli artisti vediamo bene le due tendenze opposte comparate.  Gli artisti rappresentavano il 73% del totale nel 2012 e sono arrivati a ricoprire l’89% delle posizioni nel 2022; un salto in avanti di circa 16 punti percentuale. Tutto torna. L’ANALISI DEI RISULTATI 2022 Come abbiamo visto, il 2022 non si discosta dal trend negativo degli anni precedenti: la presenza femminile in classifica non arresta la sua decrescita arrivando a toccare il 10%, se si prendono in considerazioni artiste italiane ed internazionali. Le artiste internazionali con le loro posizioni sono:  #55 Dua Lipa, #56 Taylor Swift, #59 Adele, #82 Olivia Rodrigo, #86 Rosalia Le sole artiste italiane rappresentano invece il 5,15%. L’elenco dei nomi è presto fatto: #33: ELISA con “Ritorno al futuro / Back to the future” (Island – Universal Music) #39: MADAME con “Madame” (Sugar Music) #45: ARIETE con “Specchio” (Bomba Dischi) #76: ANNA con “Lista 47” (Virgin – Universal) #96: LRDL con “My Mamma” (Woodworm / RCA NUMERO 1 – Sony Music) Al contrario dei 10 anni precedenti dove si potevano trovare presenze femminili dalla 1a alla 15esima posizione (alla peggio), nella classifica 2022 non troviamo nessun’artista nei primi 32 posti. Dobbiamo arrivare al n.33 per trovare Elisa che, al contrario delle classifiche degli ultimi 10 anni, è l’unica tra le italiane presenti ad avere una lunga carriera partita nel 1997 con 11 album alle spalle (rispetto agli anni passati le grandi assenti sono Alessandra Amoroso, Emma, Laura Pausini, Giorgia, Fiorella Mannoia, Gianna Nannini, ad esempio). Procedendo con la 2022,  dopo Elisa alla n.33 si passa per Madame alla n.39, Ariete alla n.45, alla n.76 di Anna e, per finire, alla n.96 di LRDL; ma andiamo avanti. ARTISTE/I ITALIANE/I Parliamo ora di repertorio internazionale e italiano. Notiamo anche che se le artiste italiane rappresentano il 50% del totale delle presenze femminili, gli artisti italiani sono più dell’86% della totalità del loro genere. Questo è sicuramente un dato positivo preso nella sua interezza, perché vuol dire che il pubblico italiano apprezza sempre di più la produzione artistica locale e che, che sia come causa o come effetto, le etichette discografiche e gli editori italiani investono in questo tipo di proposte musicali e di repertorio in modo attivo. A quanto pare però, investono solo su artisti con la “i”, e questo non è un segreto. Anzi, analizzando l’andamento della percentuale di artisti/artiste italiani/e negli ultimi 11 anni di classifiche album FIMI, scopriamo questo: La tendenza è in aumento sia per le artiste che per gli artisti, ma con un delta tra i valori di partenza e quelli di arrivo molto diverso. Se la percentuale di artiste italiane rispetto al totale delle artiste parte con un 48% del 2012 per arrivare, con qualche oscillazione, ad un 50% del 2022 (segnando quindi un +2%) gli artisti italiani passano dall’essere il 36% nel 2012 a diventare la quasi totalità nel 2022 con l’86% di presenze segnando un interessantissimo +50% Cosa ci dice questo dato? Proviamo a fare delle ipotesi. IPOTESI 1: l’arrivo di Spotify Spotify sbarca in Italia nel 2013. Il fatto che la percentuale di artiste, italiane e non, stia scendendo da allora in modo lineare non può lasciare indifferenti, sia perchè i periodi sembrano coincidere, sia perchè la cosiddetta “quarta ondata femminista” ha avuto inizio indicativamente nel 2010 a cui è seguito nel 2017 il movimento #metoo (in italia #quellavoltache). Di fatto nel decennio in cui i movimenti a tutela della disparità di genere e dell’emancipazione femminile tornano letteralmente sotto i riflettori constatiamo che la presenza di artiste in classifica ha seguito una tendenza piuttosto controintuitiva. É possibile che il cambio della fruizione della musica dall’acquisto del supporto fisico alla subscription di servizi su piattaforme digitali abbia avuto una grande importanza nel creare un (nuovo) ostacolo all’accesso e allo sviluppo di carriere di musiciste, artiste, produttrici italiane?  IPOTESI 2: la pandemia Non è un segreto che gli effetti negativi della pandemia sono stati, tanto per cambiare, molto più a carico delle donne che degli uomini: lavoro (non retribuito) di cura aumentato esponenzialmente, lavori domestici moltiplicati e, cosa più importante, tanti posti di lavoro persi e mai recuperati con conseguente penalizzazione nelle nuove assunzioni. Sembra che questa tendenza abbia intaccato anche il settore musicale; riferendoci nuovamente al primo grafico “% Presenza Artiste 2012-2022” troviamo un riscontro di questo: c’è infatti un

CLASSIFICA FIMI 2022 – Cultura italiana 3 – Parità di genere (quasi) 0 Leggi tutto »

TAYLOR SWIFT occupa le prime 10 posizioni della classifica Billboard Hot 100. E quindi?

Taylor Swift lancia il suo nuovo album “Midnights” e 10 di quei brani finiscono dritti nelle prime 10 posizioni della classifica americana Billboard Hot 100 dei singoli più venduti e streammati sulle varie piattaforme, e il brano “Anti-Hero” raggiunge i 17 milioni di streaming su Spotify in un solo giorno. Sembra a un primo sguardo una grande conquista, sia dal punto di vista artistico sia considerando il contesto socio-culturale attuale, in cui le donne continuano a essere meno rappresentate degli uomini all’interno dell’industria musicale: pensare che un’artista possa raggiungere un traguardo da record come questo dovrebbe rendermi solo contenta, in quanto donna. Le cose però non sono così semplici, soprattutto se si approfondiscono alcune dinamiche che regolano il mercato discografico e ne orientano l’andamento. Taylor Swift rappresenta, considerando la parabola della sua carriera musicale, lunghissima (17 anni: più di metà della sua vita), solidissima e al momento tutt’altro che discendente (è una delle più premiate della storia della musica con più di 950 premi vinti su oltre 1550 nomination), un esempio (in parte) positivo a livello di rappresentazione e modello per qualsiasi artista: è una cantautrice, lontana quindi dallo stereotipo che vede le donne come tradizionalmente incasellate nell’eterno ruolo di interpreti – tipicamente di brani scritti da uomini, tra l’altro; è una donna dichiaratamente pro-choice, apertamente alleata della comunità LGBTQIA+ (nel 2019 ha lanciato una petizione a supporto del’Equality Act), schierata politicamente (una rarità se si considera il mondo da cui proviene, quello della musica country, tipicamente di altro orientamento ideologico – si veda il precedente creato dalle Dixie Chicks e il conseguente boicottaggio da parte dei fan dopo la loro condanna a Bush nei primi anni 2000). Considerando però alcuni elementi del momento storico particolare che stiamo vivendo, soprattutto di profondi cambiamenti a livello socio-culturale e di nuove e vecchie dinamiche dell’industria musicale (soprattutto di questa “rinata” industry post-covid, sempre meno accogliente nei confronti degli e delle emergenti) è impossibile non vedere alcune zone d’ombra anche in quella che sembrerebbe una buona notizia tout court.  Può la vittoria di una donna essere la vittoria di tutte le donne? Per cominciare da uno degli aspetti più evidenti, il trionfo di una sola artista nella top ten di Billboard sembra ricordare più la dinamica di funzionamento di un monopolio che quella di un mercato libero.Una domanda sorge spontanea: dove sono le artiste emergenti? Perché una singola artista si è presa tutta la fetta della torta? Quando ci si pone il problema della rappresentanza di genere – ovvero, quante donne fanno musica? Quante raggiungono il successo? Quante godono di libertà artistica? – non si può non pensare alla questione della rappresentanza come vera e propria rappresentazione. La rappresentazione implica necessariamente che oltre a esserci “delle donne” in classifica, ci siano varietà e pluralità di voci e di narrazioni. La mancanza di pluralità e varietà, così come accade quando mancano a livello di rappresentazione di donne (vs uomini), è sempre indice e manifestazione di uno squilibrio di potere, che in questo caso è trasversale alla questione di genere (lo stesso problema si era presentato quando il monopolio della top ten di Billboard aveva riguardato Drake, per fare un esempio a noi vicino temporalmente). In questo caso l’artista rappresentata e premiata non è un’artista qualunque: è un’artista che vince un Grammy dietro l’altro, secondo il report IFPI 2022 è l’artista numero 2 al mondo, seconda solo ai BTS, è un’artista che non proviene dal mondo indipendente, è una donna che ha un net worth stimato da Forbes pari a 570 milioni di dollari, il che la rende una delle artiste più ricche e potenti del pianeta. Taylor Swift, molto più di altre sue colleghe, pur mantenendo quanto più possibile il controllo sulle proprie scelte artistiche (significativo il caso della sua faida con Scooter Braun e la Big Machine Records, che per anni le hanno impedito di acquisire la proprietà dei master dei suoi primi sei album, faida conclusasi con l’artista stessa che ha ri-registrato alcuni tra i suoi primi lavori ri-pubblicandoli da sé), è un prodotto. Se è vero che può essere difficile distinguere una donna di successo (lo stesso Forbes la definisce “self-made”, donna-imprenditrice-fattasi-da-sé) da un prodotto, qui ci troviamo in un caso borderline in cui il prodotto in questione ha chiaramente una testa pensante e una propria agency, ma altro non fa che ricalcare il modello di una donna che è sì artista, ma anche appunto imprenditrice (con una major e un team dedicato alle spalle, tutt’altro che self-made come viene raccontato), in piena logica neo-liberista. Donna-imprenditrice, donna-boss-bitch, donna-che-fattura, donna-prodotto: in fondo tra i quattro elementi non c’è molta differenza. La stessa Taylor Swift incarna contemporaneamente il ruolo di artefice, complice e vittima delle dinamiche di un’industria che nonostante sia “creativa” o “culturale”, si occupa principalmente di trarre profitto dalla vendita dei propri prodotti, tanto che Swift stessa ammette candidamente nel proprio documentario “Miss Americana”, prodotto per Netflix, di doversi continuamente reinventare artisticamente per rimanere rilevante nel mercato musicale, che di certo non premia le donne, soprattutto una volta che superano una certa età (ma questa è un’altra storia ancora). Il motivo per cui 10 tra i 13 brani del nuovo album di Taylor Swift occupano le prime dieci posizioni della classifica Billboard, è che questi stessi brani sono stati resi vendibili, marketable, appetibili per il target di riferimento grazie a un’operazione strategica di altissima precisione chirurgica. Per prima cosa, Taylor Swift può contare sull’appoggio di una fanbase molto solida e affezionata, che è affiliabile per composizione demografica e per dinamica dell’emergere del fenomeno culturale allo stesso pubblico di artisti e artiste del mondo di High School Musical e Disney (nonostante Swift sia nata nell’89 e come artista abbia più volte cercato di prendere le distanze sia dal mondo country, sia dalle forme espressive meno mature del pop radiofonico – si vedano i precedenti due album, Folklore e Evermore, composti e prodotti insieme a Matt Berninger e Aaron Dessner dei The National e con i featuring di Bon Iver). I suoi

TAYLOR SWIFT occupa le prime 10 posizioni della classifica Billboard Hot 100. E quindi? Leggi tutto »